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Relazione di S.E. Mons. A. Staglianò al VI Convegno Internazionale di Bioetica il 2 Ottobre 2009 a Le Castella
Esistenza e carità: per un'antropologia della condivisione
06-10-2009

Introduzione


 Riflettere sul rapporto giustizia e società nella prospettiva dei problemi della bioetica è impegno teorico oggi indispensabile. La bioetica ‘è risaputo-,  nasce come problematica dell’applicazione della tecnologia alla vita e in bioetica il rischio principale cui si espone la pratica medica, mediante il procedimento tecnico-diagnostico, è quello della “separazione”, e cioè dell’annullamento della prossimità e della cura: sembra infatti che  le possibilità aperte e offerte dalla tecnoscienza, applicata alla bio-medicina, potrebbero diventare un ostacolo alla relazione tra il paziente, l’operatore sanitario e i parenti, trasformandola in relazione puramente strumentale.
Non solo: il progresso tecnologico corre il rischio di occultare la finitudine, innescando una spirale automatica tra “desideri” e loro soddisfazione, in una continua e disperata corsa verso una felicità che consisterebbe nella soddisfazione dei desideri e nella eliminazione del dolore e della morte. Proprio nell’occultamento della finitudine, la hybris (tracotanza) della vita ‘ che deriva quasi da un sentimento di onnipotenza (una ubriacatura – derivante dall’applicazione sempre più allargata della tecnoscienza all’inizio e alla fine della vita – che perverte l’umano dell’uomo) impedirebbe di pensare alla ‘vita buona’ dell’uomo nella forma della presa in carico, della cura e della prossimità verso l’altro, e l’uomo rinuncerebbe all’ineludibile compito etico, di attuazione di un senso, che rimane la fonte dell’appello e dell’ingiunzione affinché la sua libertà decida bene di sé.
Pertanto la bioetica richiede un’etica della responsabilità o della cura responsabile, che si fonda ontologicamente sulla relazionalità nell’esistenza umana.

 

L’antropologia della condivisione


 Si legge in Gn 2,18: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18) Questo significa che da “solo” l’uomo non realizza totalmente la sua essenza. La compie soltanto esistendo “con qualcuno”, e ancor più completamente esistendo “per qualcuno”.
Per cogliere in maniera adeguata tutto il contenuto della ‘comunione’ e della ‘donazione’,  quali connotati dell’identità personale dell’uomo, è necessario, da un lato, sviluppare una considerazione della persona umana e della sua vita ne colga le radici profonde del suo essere (desiderio dell’uomo verso l’altro) e, dall’altro lato, occorre portare questa stessa visione antropologica al suo compimento, meglio alla sua più originaria radice, quella ‘teologica’ (ontologia filiale: desiderio dell’uomo verso l’Altro e verso l’altro). Infatti comunione e donazione sono iscritte nell’essere dell’uomo, sono i connotati qualificanti la persona.
 Ogni uomo ha consapevolezza di essere generato e di trovarsi in una catena di generazioni: nessuno dona la vita a se stesso. Ognuno sa per altro che la vita è limitata e fragile e che il suo inizio, la sua custodia, il suo sviluppo dipendono dalla responsabilità e dall’amore di tanti altri. Questa consapevolezza si fa più chiara di fronte al concepito non ancora nato, al bambino, al malato, all’anziano, al morente, al più debole e indifeso.
 La consapevolezza dell’uomo poi si compie, e giunge alle sue sorgenti, quando per conoscersi e sapersi l’uomo accoglie la rivelazione della vita di Dio, che mistero luminoso capace di svelare il mistero dell’uomo a se stesso: nella ‘relazionalità’, e quindi nel suo essere ‘con’ gli altri e ‘per’ gli altri, l’uomo esprime e vive la sua realtà originaria di ‘immagine’ di Dio Creatore e di Dio Uno e Trino. L’uomo sta in comunione con Dio,  meglio Dio – con il suo gesto creativo e redentore – sta in comunione con l’uomo. Questa comunione è segno e frutto di una donazione, testimonianza dell’amore donante di Dio. Più precisamente si tratta di un amore donante che conduce Dio a fare dell’uomo un ‘partner’ di quel dialogo di comunione e di donazione che costituisce la vita intima di Dio Uno e Trino, di Dio Padre, Figlio e Spirito, di un Dio-dialogo, vivente e vitale, capace di prendersi cura eternamente della sua creatura.
 Possiamo a questo punto parlare di un’antropologia dell’amore, cioè una visione dell’uomo nella quale l’amore definisce e identifica la persona umana. Afferma Giovanni Paolo II in Redemptor hominis  10: «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente».
Di conseguenza, più precisamente, l’amore, prima che un dato etico, è un dato ontologico, strutturale della persona, che riesce bene a fare sintesi del significato di alterità (differenza) e di reciprocità (complementarietà), base del riconoscimento dell’altro come persona, senza contrastarne la concezione come ente in sé. Arriviamo, così, alla definizione di persona di Mounier che ha corretto lo slogan cartesiano con l’espressione: «amo ergo sum»: l’uomo come un essere per amare.

 

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Relazione di Mons. Staglianò al Convegno nazionale Migrantes a Frascati il 23 settembre 2009
'Cieli nuovi e terra nuova'. L'accoglienza: dimensione ontologica della comunità cristiana
02-10-2009

«Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta [‘]Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale, e l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali» (Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n. 3).

 Secondo Benedetto XVI il significato della carità svelato dalla verità è donazione-accoglienza-comunione: «La verità è  luce che dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l’intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione. Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E` il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso e` preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrari» (Caritas in Veritate, n. 3). Ciò che è detto della carità, vale anche per l’accoglienza, che è una specificazione di significato della carità cristiana: da qui l’importanza e l’interesse della nostra riflessione sull’accoglienza  come dimensione ontologica della comunità cristiana.

1. La verità dell’accoglienza
 L’accoglienza non è semplicemente un modo-di-porsi e di rapportarsi della comunità, ma ne dice più profondamente l’essere: accogliere non è solo un fare-operare del cristiano, ma è soprattutto un manifestare-svelare la realtà che si è, che costituisce e determina la vita stessa della comunione ecclesiale, dichiarandone la credibilità. Vale l’adagio classico: agere sequitur esse. Perciò, l’agire va verificato sull’essere, potendolo manifestare o anche tradire: l’essere è la realtà, la verità.
 Appartiene a questa verità dell’accoglienza il fatto vero che il cristianesimo non è solo dottrina, ma piuttosto evento, irriducibile a gnosi: l’accoglienza/ospitalità sintetizza bene la priorità dell’annuncio con quello della testimonianza per una evangelizzazione realizzata con ‘fatti e parole intrinsecamente connessi’ (DV 4). Così, se l’accoglienza diventa una ‘categoria teologica’ per comprendere la vita cristiana dei singoli e delle comunità essa si lascia scandagliare e collocare alle radici dell’essere, oltre e al di là ( o anche al di qua) del livello dell’emozione soggettiva o anche della compassione collettiva: accogliere per un cristiano esprime una stato ontologico, prima ancora che un dovere morale. ‘Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato’ (Gv 13,34) è un comandamento che certo implica l’urgenza di superare steccati culturali, forme di egoismo radicate, pregiudizi etnici e religiosi, per dare epifania all’amore come donazione unilaterale  e incondizionata (leggi eucaristica) che vince sulla morte della seduzione. La sua pratica però è possibile perché ‘cieli nuovi e terra nuova’ sono stati creati: cioè una conversione ontologica della creatura umana è accaduta nella storia per la grazia di Cristo, per l’amore effuso nel cuore dei credenti, per cui l’esercizio dell’accoglienza rimanda a un-essere-per-gli-altri quale realtà della persona rinnovata ontologicamente nell’amore e dall’amore.


 

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Relazione di Mons.STAGLIANO’ La dottrina trinitaria di Gioacchino da Fiore tra simbolismo metaforico e riflessione speculativa, 26 settembre 2009 al VII CONGRESSO INTERNAZIONALE DI STUDI GIOACHIMITI
02-10-2009

Tutta la riflessione di Gioacchino sulla storia è innervata dal tema trinitario . La sua peculiare esegesi e interpretazione del processo storico non si darebbe per nulla senza il puntuale riferimento ermeneutico alla dottrina sulla Trinità. Questa investe l’intera sua produzione letteraria, dall’inizio alla fine. Le tre opere principali ne sono un’icastica testimonianza. In sé costituiscono come una trilogia dedicata alle tre persone divine: la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, in cinque libri, formula la teoria esegetica e si pone sotto l’emblema del Padre; l’Expositio in Apocalypsim, in otto libri (più il Liber introductorius che riprende, variandolo in alcuni punti lo scritto giovanile Enchiridion super Apocalypsim), svolge il grande disegno escatologico e può essere rapportata al Figlio; lo Psalterium decem chordarum, in tre libri, organizza la visione trinitaria dell’Abate ed è espressamente dedicata allo Spirito .

 

1. Tra settembre 1182 e agosto 1183 Gioacchino è a Casamari e si dedica interamente a queste tre opere: la composizione parallela lascia intravedere lo svolgimento di un preciso disegno organico e pone alcuni problemi di critica testuale circa l’intrecciarsi delle riflessioni e dei reciprochi influssi. ‘Giorno e notte’ egli lavorava, correggendo e rivedendo a più riprese le sue meditazioni, dettandole a due monaci che l’abate gli mise a disposizione come segretari . Quantunque Gioacchino avesse per primo intrapreso il Liber Concordie (già a Corazzo, dove era divenuto abate tra il 1171 e il 1177), successivamente il commento dell’Apocalisse e solo alla fine si fosse dedicato alle questioni trinitarie del Psalterium, non è difficile riconoscere che egli abbia potuto ripensare e reimpostare le prime due opere a partire dalla dottrina trinitaria sostanzialmente condensata nel primo libro del Salterio a Casamari; sicché, a prescindere dall’ordine cronologico delle redazioni, la Concordia e l’Expositio certo convergono nello Psalterium, ma quest’ultimo condiziona le prime due e influendo visibilmente sul loro contenuto e sulla loro elaborazione.

 

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Relazione del Vescovo Mons. Staglianò tenuta a Roma il 21/04/2009 per il Simposio Internazionale su Anselmo d’Aosta nel IX centenario della morte
Preghiera e argomentazione filosofica nel Proslogion di Anselmo d'Aosta
28-04-2009

Il Proslogion è espressamente un dialogo con Dio alla ricerca di intelligenza. L’approfondimento logico è inquadrato dentro un atteggiamento di invocazione dell’uomo verso il suo Dio, contemplato nella maestà della sua vita divina e amato nella misteriosa ineffabilità della sua misericordia. È una situazione esistenziale dentro la quale il pensiero cogitante vive e dalla quale trae forza: la preghiera introduttiva non deve soddisfare semplicemente le esigenze della scelta di un particolare genere letterario. Essa è molto di più di un ‘accorgimento stilistico’, perché fonda il dinamismo del pensare anselmiano, costituendo le condizioni delle possibilità reali del suo vero esercizio.


Viene così a stabilirsi un ‘legame stretto’ tra il movimento riflessivo della ragione e la decisione credente dell’orante. Il tema toccato è Dio, la sua esistenza, i suoi attributi: un tema suscettibile non solo di trattazione strettamente teologica, ma anche di sviluppo squisitamente filosofico, proprio perché coimplicativo di una concezione generale della realtà e dell’essere, dell’uomo e della storia. La presunzione anselmiana sarebbe quella di poter intensivamente ricercare sul piano filosofico, mantenendo o, per lo meno non nascondendo, un influsso da parte della fede storica ed ecclesiale (mistica) sul livello della conoscenza come tale. Cogitatio e meditatio appaiono armonicamente come due modalità differenti dell’unico movimento con cui lo spirito umano attinge vera conoscenza. Ha ragione R. W. Southern: «preghiera e meditazione costituiscono due modi strettamente collegati tra loro di sforzo mentale. Il loro intrecciarsi è uno dei caratteri principali del metodo anselmiano». E’ senz’altro questo il motivo per cui il modo di ‘porsi in pensiero’ di Anselmo ha ricevuto così ampio spazio nella Fides et ratio di Giovanni Paolo II – l’enciclica dedicata al rapporto tra fede e ragione ‘ che sottolinea la ‘circolarità virtuosa’ tra pensare e credere in una epistemologia nella quale la fede e la ragione permangono nella loro rispettiva autonomia e, tuttavia, doverosamente non si esercitano in netta separazione, ma piuttosto in un mutuo sostegno epistemico: fides quaerens intellectum ‘ intellectus quaerens fidem.

 

La ‘sola ratione’ non è ragione isolata


Denominato impropriamente’Padre della scolastica’ (non esiste ancora in Anselmo la distinzione chiara di Tommaso tra ragione e fede, tra filosofia e teologia), egli rifondò su nuove basi la teologia, approfondendo il momento speculativo e razionale del discorso della fede. Il suo progetto di fides quaerens intellectum rimanda a una particolare figura della ragione che non è riconducibile nè all’intellectus della patristica, nè alla ratio dell’alta scolastica. Il suo metodo è quello delle rationes necessariae (della scoperta della intrinseca necessità del dato), perciò è metodo intenzionalmente filosofico. L’oggetto della sua riflessione è, però, dichiaratamente teologico: il libero agire di Dio con l’uomo, creato e chiamato in Cristo a libertà. In questo senso, la meditazione anselmiana è ad un tempo filosofica e teologica. Il famoso argomento del Proslogion intreccia i due livelli della riflessione unitaria di Anselmo: quello della ‘sola ragione’, della motivazione critica spinta al massimo della sua necessità implicativa e quello della fede che cerca di comprendersi, in cerca dell’intelligenza della propria misteriosa oscurità.
Anselmo crede, ma vuole capire ciò che crede. Assertore di un profondo legame tra fede e intelligenza, egli apre il dialogo con il ‘non credente’ e con l’infedele, sicuro che la mente umana dischiude un itinerario di intelligenza praticabile a chiunque usi la ragione in modo onesto. Perciò egli non teme di riflettere razionalmente pregando il suo Dio: non ha timore di approntare una prova razionale dell’esistenza di Dio nell’invocazione della grazia che deve illuminarlo nel cammino della sua scoperta. La fede viene al pensiero. Il pensiero non disdegna di avanzare nella fede stessa.


Dalla fede creduta Anselmo mutua, infatti, quella denominazione di Dio in quanto id quo maius cogitari nequit , riconosciuto poi presente alla mente umana come suo fondamento costitutivo. Poichè è nell’intelletto, ‘ciò di cui non si può pensare il più grande’ non può restare soltanto sul piano ideale; non può non esistere anche nella realtà, diversamente non sarebbe quello che si dice che è , non sarebbe ciò che è, cioè ‘ciò di cui non si può pensare il più grande’. Ma questo è contraddittorio. Il passaggio apparentemente semplice postula invece qualcosa che non viene discusso, come, per esempio, l’acquisizione neoplatonica che l’esistente in re è più grande dell’esistente solo in intellectu. Tuttavia una più equilibrata interpretazione del dettato anselmiano impedisce il giudizio del ‘salto indebito’ dal livello logico a quello ontologico che la tradizione critica da Gaunilone, attraverso Tommaso e fino alla sistemazione di Kant, gli ha ingiustamente accreditato.


 

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Il saluto di Mons. Antonio Staglianò alla civitas di Noto il 2 Aprile 2009
03-04-2009

«Non abbiate paura. Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa ‘cosa è dentro l’uomo’. Si, solo lui lo sa». Con queste parole Giovanni Paolo II incoraggiò il mondo intero a camminare, senza fermarsi mai, oltre ogni resistenza e ogni difficoltà, nella speranza di poter costruire un futuro più felice perché più umano. Oggi, nella memoria del IV anniversario della sua morte queste parole rivestono una solennità particolare e dal silenzio muto della sua scomparsa possono essere riascoltate come ‘parole dette a noi’, qui, in questa ora del nostro incontro.
Così io vengo a voi, proclamandole con timore e tremore, ma nella convinzione profonda e certa che queste parole sono vere, comunicano verità alla mente, calore al sentimento, sicurezza nel guardare al futuro e infondono il desiderio di operare, di non stare inerti, con le mani in mano ad aspettare ‘godot’, ad aspettare cioè un Dio che non viene mai, che non agisce mai e che mai si fa sentire: «Non abbiate paura! Cristo sa ‘cosa è dentro l’uomo’. Si, solo lui lo sa». Lui solo, il Crocifisso, che nella condizione dell’assoluta impotenza sulla croce si è mostrato assolutamente potente nell’amore, nel dono di sé, spinto alla morte e nella situazione del suo silenzio muto sulla croce ha lanciato al mondo la parola più eloquente, quella che tutti capiscono: ‘Dio è amore’, Dio è buono, Dio è misericordia.




Non abbiate paura, perciò, di predicare questo Vangelo di Cristo: ‘Dio è amore’, Dio è buono, Dio è misericordia. Poiché questo Vangelo non è una semplice dottrina o semplicemente un bel messaggio, ma è un evento, un fatto di vita, potrete e dovrete predicarlo solo vivendolo: si predica Cristo vivendo di Cristo e portandolo agli uomini. E allora, non abbiate paura di portarlo agli uomini, perché Cristo ‘custodisce l’umano dell’uomo’: si, solo Lui è custode dell’umano. Chi predica Cristo esalta la persona nell’uomo, coglie la bellezza particolare dell’umanità: solo l’uomo è capace di relazioni amative profonde, vuole realizzarsi nel dono, si autotrascende per gioire, rendendosi presente nel cuore dell’altro, facendosi spazio nella sua vita attraverso l’amore. Il Crocifisso non è un cadavere che pende da un legno, ma è il Vivente che sta sulla croce, per insegnare a tutti gli uomini ‘credenti e non credenti o diversamente credenti ‘ che solo nel dono di sé, fino a morirne, splende la bellezza dell’umano e sul serio si contribuisce a costruire una civiltà degna dell’uomo. Venite, dunque, e dialoghiamo: ditemi se altrove potrete trovare questa bellezza. Ditemi: c’è bellezza umana nell’arroganza del dominio dell’uomo sull’uomo? No, la bellezza sta nel servizio e non nella sopraffazione. Ditemi: intravedete bellezza umana negli interessi di parte che spingono a sfruttare ingiustamente uomini e donne in questo tempo? No, la bellezza sta nella solidarietà che diventa un ‘prendersi’ cura, una prossimità, una vicinanza. E ditemi ancora, direste che è bello l’uomo ridotto a consumatore, a pancia, nelle pratiche ordinarie delle società dell’opulenza, ridotto a numero nelle società complesse e anonime, ridotto a materia biologica, sfruttabile come ‘pezzo di ricambio di una macchina’ o manipolabile per la soddisfazione (spesso solo capricciosa) dei propri individuali e soggettivi desideri nelle società della tecnologia avanzata. No, la bellezza umana sta nel riconoscere che l’uomo è persona e lo è nel suo atto proprio: l’amore, l’amicizia, la fraternità, la comunione. Il Vangelo di Cristo dice che Dio è comunione che genera comunione e incoraggia tutti gli uomini a recuperare la propria bellezza umana. E come dire: credi in Cristo, cioè diventa un vero uomo, sii un bell’uomo. Così, con tutto l’ardore e lo zelo per la causa di Dio ve lo dico con chiarezza lapidaria – e su questo vorrei con il tempo sentirvi e vedervi – : «il rispetto che noi abbiamo per la bellezza della nostra umanità è lo stesso rispetto che abbiamo per Dio, e viceversa».

 

Espressioni di gratitudine di S.E.R. Mons. Antonio Staglianò al termine della Liturgia di Ordinazione Episcopale Palamilone di Crotone 19 marzo 2009
Solennità di S. Giuseppe, sposo di Maria
20-03-2009


Sia resa gloria a Dio nel più alto dei cieli perchè compie sulla terra degli uomini le sue meraviglie.  Lo confesso ora: Dio è buono e la sua misericordia è grande nella mia vita in quest’ora. Quest’ora è opera di Dio ed è ‘solo grazia’. Rispetto all’evento del dono dell’Episcopato, della pienezza dell’Ordine sacro, mi sento e sono infinitamente piccolo, ‘nulla’: credo però in Dio che dal nulla crea tutte le cose e mi ama e con la sua Provvidenza mi conduce ‘ quale unico reale ‘buon pastore’- sui pascoli verdeggianti della misericordia, della verità, della carità. Questa Provvidenza ‘ lo dico con le parole del Beato Antonio Rosmini – «Io meditandola l’ammiro, ammirandola l’amo, amandola la celebro, celebrandola la ringrazio, ringraziandola m’empio di letizia. E come farei altramente, se so per ragione e per fede, e lo sento coll’intimo spirito, che tutto ciò che si fa, o voluto o permesso da Dio, è fatto da un eterno, da un infinito, da un essenziale Amore? E chi potrebbe corrucciarsi all’amore? ». Confesso che ‘Dio è amore’,  Deus caritas est: qui è l’inizio di tutto, come ci ha ricordato Benedetto XVI, il Santo Padre, al quale esprimo la mia filiale e devota gratitudine ‘ nel giorno della festa onomastica – per essersi degnato di nominarmi Vescovo dell’amata e nobile Chiesa di Noto.



 L’amore di Dio è anzitutto misericordia che genera e rigenera.
Nel mistero dolcissimo del Padre della misericordia il mio cuore trabocca di gratitudine per il grembo che mi ha dato la vita: sono contento di esserci, di esistere, di vivere. Grazie allora ai miei genitori che con il loro amore coniugale hanno permesso a Dio di amarmi con il dono della vita e in loro ‘ mamma e papà ‘ ringrazio i miei familiari, tutti, per il tempo bellissimo della nostra crescita umana e cristiana, per il loro affetto e la loro vicinanza: sono contento di essere vostro figlio, fratello, amico e sono contento di voi come genitori, fratelli e sorelle e amici.
Sono contento, in particolare, di essere cristiano e di essere prete: perciò ringrazio soprattutto anche l’altro grembo che mi ha donato la fede: la mia parrocchia di origine di Isola Capo Rizzuto e quel fonte battesimale da cui non mi sono mai spiritualmente distaccato, sin da ragazzino, sotto la guida di Mons. Giacinto Scalzi, di venerata memoria, e poi dei Padri rosminiani che mi hanno aiutato a maturare nella fede fino al sacerdozio, il 20 Ottobre 1984. Per questo, un grazie speciale va a quanti mi hanno accompagnato con amorevole cura in quel lungo e straordinario cammino, don Riccardo Alfieri specialmente, così come anche i superiori e i professori dei seminari milanesi di Saronno e Venegono: tutti ringrazio nelle persone, presenti in questa celebrazione, di S.E. Mons. Renato Corti (Vescovo di Novara) e di S.E. Mons. Francesco Coccopalmerio (Presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi). Grazie per essere qui, per tutto quello che mi avete donato. In voi ringrazio tutta la nobile Diocesi ambrosiana ‘ il cui Arcivescovo il Card. Dionigi Tettamanzi, mio professore di morale voglio sa qui salutare -, per l’accoglienza e per la grazia di affetto, di cultura e di testimonianza nella carità che mi ha permesso di ricevere da Dio negli anni della mia formazione al presbiterato, prolungatesi a Roma nel seminario Lombardo.
Da prete ho amato e servito la mia Chiesa diocesana di Crotone-S.Severina: qui sono stato edificato dalla fede di tanta gente, dall’amicizia dei confratelli e dalla guida autorevole dei miei Vescovi: grazie a Mons. Mugione,  del quale ho apprezzato – pur nella sua breve permanenza tra noi ‘ la ricerca della comunione e lo sviluppo delle sinergie pastorali; grazie a Mons. Agostino dal quale ho appreso tanta sapienza e ho ricevuto tanta intelligenza pastorale nel suo lunghissimo e fecondo magistero in mezzo a noi, la cui abbondante grazia ha permesso alla nostra Chiesa locale di esprimere ben quattro vescovi, includendo oltre Mons. Graziani e Mons. Cantafora, anche S.E. Mons. Bregantini, già vescovo di Locri e ora Arcivescovo metropolita di Campobasso. Anche loro ricordo e ringrazio di cuore.

 

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Mons. Antonio Staglianò – Parrocchia da ripensare: culto, missione, cultura
Per una parrocchia aperta al territorio, al servizio di una fede incarnata
10-02-2009

 

Parrocchia da ripensare: culto, missione, cultura
Per una parrocchia aperta al territorio, al servizio di una fede incarnata

di don Antonio Staglianò (Direttore dell’Istituto Teologico Calabro)


«Nella parrocchia, la chiesa fa casa con l’uomo» (Primo Mazzolari)


«C’è un tratto che la parrocchia non deve assolutamente perdere. Essa è chiamata a rendere visibile la Chiesa ‘radicata in un luogo’, non soltanto in senso topografico, ma anche (e più) come rapporto con la gente, le famiglie e il tessuto della società che vive e opera in un territorio. Quando ci si chiede come mai la parrocchia sia la figura più conosciuta della Chiesa, la risposta sta proprio nel suo carattere di vicinanza e di accoglienza [‘] Quando la parrocchia cerca di essere ‘Chiesa presente tra le case degli uomini’ farà bene a tener conto che, in questo modo, fa diventare realtà un sogno che, prima di essere nostro, è di Dio: è Lui che ha pensato di prendere dimora negli uomini, e non solo l’ha desiderato: l’ha fatto» (dal Messaggio dell’Assemblea generale dei Vescovi italiani [Assisi, 20 novembre 2003])


La parrocchia appartiene a quell’insieme di segni attraverso i quali storicamente si comunica la fede cristiana nel contesto della convivenza civile. Benché non abbia una identità teologica  iure divino, rappresenta una ‘scelta pastorale’ teologicamente fondata: è un soggetto pastorale e canonico importante perché la Chiesa si costituisca quale segno storico della comunione degli uomini con Dio e degli uomini tra di loro. Giovanni Paolo II lo ha richiamato, insistendo sulla sua radicazione territoriale: «se la parrocchia è la Chiesa posta in mezzo alle case degli uomini, essa vive e opera profondamente inserita nella società umana e intimamente solidale con le aspirazioni e i suoi drammi. Spesso il contesto sociale, soprattutto in certi paesi e ambienti, è violentemente scosso da forze di disgregazione e di disumanizzazione: l’uomo è smarrito e disorientato, ma nel cuore gli rimane sempre più il desiderio di poter sperimentare e coltivare rapporti più fraterni e più umani. La risposta a tale desiderio può venire dalla parrocchia, quando questa, con la viva partecipazione dei fedeli laici, rimane coerente alla sua originaria vocazione e missione: essere nel mondo ‘luogo’ della comunione dei credenti e insieme ‘segno’ e ‘strumento’ della vocazione di tutti alla comunione» (CFL 27). Don Primo Mazzolari ha detto: «nella parrocchia, la chiesa fa casa con l’uomo».
Di recente, i Vescovi italiani ‘ nella Nota pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia ‘ hanno opportunamente ribadito ‘ nella Nota il loro ‘si’ deciso alla parrocchia: «il futuro della Chiesa italiana, e non solo, ha bisogno della parrocchia». La parrocchia rappresenta «un bene prezioso per la vitalità dell’annuncio e della trasmissione del Vangelo», permettendo la concretizzazione del modello di «una Chiesa radicata in un luogo, diffusa tra la gente e dal carattere popolare» (n.5). Essa «figura di Chiesa semplice e umile», «Chiesa di popolo», vicina alla gente, capace di abitare i territori sui quali si gioca la vicenda umana (n. 4). Per la sua idoneità a permettere la tessitura di «rapporti diretti con tutti i suoi abitanti, cristiani e non, partecipi della vita della comunità o ai suoi margini» (n. 10), la parrocchia incarna la possibilità del Vangelo di farmi prossimo a ogni uomo, con una ‘nuova fantasia della carità’ (NMI, n. 50), interloquendo con tutti gli altri soggetti sociali del territorio e mirando alla creazione di una mentalità ispirata evangelicamente, di un ethos cristiano che alimenti la cultura diffusa. Da qui la sottolineatura della ‘via italiana’ nella scelta di una Chiesa di popolo che al di là di ogni rischioso perfettismo spirituale e organizzativo si rivolga a tutti e in tutti si sforzi di radicare un diffuso senso di Dio e un profondo senso cristiano della vita: «per mantenere il carattere popolare della Chiesa in Italia, la rete capillare delle parrocchie costituisce una risorsa importante, decisiva per il legame degli italiani con la Chiesa cattolica» (n.11). E’ la parrocchia del Concilio Vaticano II, secondo cui ‘la Chiesa cammina con l’umanità e sperimenta insieme al mondo la medesima sorte terrena’ (GS 40) .


Mentre il mondo cambia, la parrocchia fa sperare
Giovanni Paolo II ‘spera nella parrocchia’, anche nel senso che la parrocchia fa sperare dentro le attuali trasformazioni culturali, nel nostro tempo – definito da alcuni come ‘stagione dello smarrimento’ -, nei tanti segnali della crisi che attraversa l’uomo occidentale. In questa direzione, una interessante lettura dei ‘segni dei tempi’ si può rintracciare in Ecclesia in Europa, del 28 Giugno 2003 che rapporta questi segnali di crisi ad un offuscamento della speranza presente nella coscienza umana contemporanea.
Alcune esemplificazioni interpretano questa condizione antropologica:


1.1. smarrimento della memoria e dell’eredità cristiane, che si accompagna a certo agnosticismo pratico e ad un indifferentismo religioso: i simboli della presenza cristiana diventano ‘puro vestigio del passato’ a causa dell’incalzante processo di secolarizzazione, mentre si fatica a tradurre la fede in Cristo in un progetto di vita capace di innovare il tessuto sociale e culturale: il sale del cristianesimo rischia di risultare insipido, minacciato nel suo linguaggio più proprio e svuotato di senso (n. 7);


1.2. paura nell’affrontare il futuro, mentre la vita perde di significato e l’angoscia avanza, manifestandosi in tanti epifenomeni, quali la diminuzione della natalità, e il rifiuto a operare scelte definitive: lo dimostrano il calo delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, ma anche l’aumento dei divorzi e l’indisponibilità a stabilire legami duraturi che valgano il sacrificio di una vita;


1.3. la frammentazione dell’esistenza che porta a solitudini sempre più acutizzate, a divisioni e contrapposizioni (crisi familiari; conflitti etnici; atteggiamenti razzisti); l’indifferenza etica si coniuga con un egocentrismo esasperato, ravvisabile anche nella eccessiva ‘cura spasmodica per i propri interessi e privilegi’;


1.4. il crescente affievolirsi della solidarietà interpersonale, motivato certo dall’individualismo imperante, ma anche da una figura della globalizzazione tutta orientata a «seguire una logica che emargina i più deboli e accresce il numero dei poveri della terra», mentre le persone ‘ anche quelle assistite dal lodevole sforzo di tante istituzioni -, si sentono lasciate in balia di se stesse «senza reti di sostegno affettivo» (n. 8).
Si tratta dell’emergere di una nuova cultura – dominata dai media e spesso in contrasto con il Vangelo, talvolta ostile alla predicazione ecclesiastica-, nella quale grande spazio e posizione dominante hanno stili di pensiero e atteggiamenti di vita improntati all’edonismo, al pragmatismo, al relativismo e al nichilismo: si fa strada un nuovo uomo che nulla a che a fare con l’uomo nuovo del Vangelo, in una visione antropologica senza Dio e senza Cristo: «la cultura contemporanea dà l’impressione di una ‘apostasia silenziosa’ da parte dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse» (n. 9).
Il contesto occorre ‘ con occhio illuminato dalla speranza cristiana ‘ riconoscere i «segni dell’influsso del Vangelo di Cristo nella vita delle società»: il recupero della libertà della Chiesa all’Est e un nuovo impulso nell’azione pastorale; il concentrarsi della Chiesa nella missione spirituale e il primato dell’evangelizzazione anche nei confronti della società civile e politica; una maggiore consapevolezza della missione del laicato negli spazi propri, la valorizzazione della presenza della donna.
Tra i segnali che aprono alla speranza, guardando alla vita ecclesiale, il Papa tra gli altri (i testimoni della fede cristiana, i tanti santi del nostro tempo ecc.) parla anche della parrocchia: essa «rimane in grado di offrire ai fedeli lo spazio per un reale esercizio della vita cristiana, come pure di essere luogo di autentica umanizzazione e socializzazione sia in un contesto di dispersione e anonimato proprio della grandi città moderne, sia in zone rurali con poca popolazione» (n.15).


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Breve discorso di don Antonio Staglianò per l’Eucarestia del 27 gennaio 2009
Perché chi fa la volontà di Dio, costui è per me fratello, sorella e madre (Mc 3,35)
27-01-2009

Carissimi,

ascoltiamo la Parola di Dio non come ‘ascoltatori smemorati’, ma come persone che ascoltano per ‘mettere in pratica’. Lo sappiamo: solo se mettiamo in pratica la Parola di Dio che ascoltiamo, raggiungiamo la gioia e la felicità che Dio promette e compie attraverso la sua Parola. D’altronde, come potrebbe essere diversamente? Il cristianesimo nasce da un evento di incarnazione e, perciò, è una esperienza spirituale che si consuma nel corpo, nella carne. La fede cristiana è fede incarnata: non è un gioco di perle di vetro, non è un sospiro dell’anima, non è un pio sentimento del cuore o un bellissimo sogno notturno. No! Il cristianesimo è l’amore di Dio dentro la vita degli uomini, un amore che dilaga ‘ dilatentur spatia charitatis (S. Agostino) ‘ e contagia i cuori delle persone, coinvolgendo tutto: mente, affetti, desiderio, volontà, corpo. Così l’evento del Natale si rinnova nella vita di persone umane concrete, che nella concretezza della loro quotidianità ‘corposamente’ si impegnano ad amare. E’ inutile dire che le forme dell’amore sono tante e Gesù ‘ per riconoscere i ‘suoi’ ‘ indica preferibilmente le cosiddette opere di misericordia corporale: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire i nudi e visitare i carcerati. Sono come simboli della volontà del cristiano di fare sul serio, prendendo sul serio il cristianesimo, facendo si che la fede ‘tocchi la sua carne’, coinvolgendo la propria libertà nell’agape.
Da quando, infatti, il ‘Verbo carne divenne’ e abitò tra noi, soffrì per noi e per noi morì, sono effettivamente finiti i sacrifici di olocausti, di montoni e di tori. Ora, in quest’Ora di Cristo ‘ diffuso, universalizzato e personalizzato dall’azione dello Spirito ‘ il Padre gradisce solo un sacrificio di ‘soave odore’. E’ il sacrificio che si compie nel proprio corpo, alla sequela di Gesù: «un corpo invece mi hai preparato [‘] allora ho detto: ‘Ecco io vengo [‘] per fare, o Dio, la tua volontà’» (Eb 10,5-7).
Da qui nasce e rinasce nuovamente l’esperienza cristiana vera che è sempre in ogni tempo e in ogni dove ‘esperienza eucaristica’: si tratta di vivere in tutti i modi possibili il gesto di Gesù che spinge il dono della sua vita fino alla morte per amore. Non si sacrificano più cose o oggetti o animali ‘ realtà esterne, insomma -, ma se stessi, la propria libertà, il proprio tempo, le proprie energie, il proprio denaro, il proprio corpo etc. etc. . Si, nel corpo e non nelle idee – nella carne e non nelle vie lattee delle nostre rarefatte conoscenze, nel quotidiano della vita concreta e non nell’astrattezza dei nostri ideali ‘ si fa la volontà di Dio.
Così si realizza la verità che qualifica i cristiani nel profondo: quella d’essere figli di Dio e, dunque, familiari veri di Dio, di un Dio che non ha disdegnato di ‘lasciare’ la sua beatitudine celeste e si è fatto uomo ‘ nel Figlio ‘ per abbracciare tutta l’umanità, afflitta e incatenata dalla sofferenza del peccato e redimerla nel suo corpo, donando il proprio corpo alla morte. Perciò è ben detto da Gesù, inequivocabilmente: solo coloro che in libertà si lasciano associare all’esperienza eucaristica del dono totale di se per amore, fino all’estremo del morire per amore, solo costoro sono ‘madre sua’ e ‘fratelli suoi’. Si capisce allora la famosa frase di S. Agostino, per la quale Maria di Nazareth non fu tanto grande per aver partorito al mondo un figlio ‘ benché il Figlio stesso di Dio. Più grande fu perché ha potuto dire (dall’inizio del suo Fiat, attraverso il dolore della croce, fino alla sua assunzione al cielo in corpo e anima) ‘mi hai dato un corpo, in questo corpo io vengo per fare la tua volontà’.
Così, tra i cristiani comincia un’altra storia, quella di sempre, quella del Figlio nella carne che ora è la carne stessa degli uomini rigenerati dallo Spirito e ripieni di Spirito Santo ‘ ‘non sai tu che il tuo corpo è tempio santo di Dio e che lo Spirito di Dio abita in te’, sicchè con Paolo puoi dire ‘io, non io: questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me’.
Il Signore ci chiede il ‘sacrifico di soave odore’, contro la tentazione sempre latente dello gnosticismo: una tentazione che non è depositata nello studio dei libri di scuola di teologia, ma nella concretezza della vita ordinaria della gente. E’ lo gnosticismo pratico di chi pensa che la fede cristiana sia un problema di dottrina o di idee e non l’esperienza del fare la volontà di Dio, nell’obbedienza ai comandamenti, nell’obbedienza al comandamento unico dell’amore: ‘ama il prossimo tuo non come te stesso, ma più di te stesso, perché lo devi amare come io l’ho amato e io l’ho amato eucaristicamente, spingendo il dono della vita fino alla morte di croce per amore’. Quando lo scopri nuovamente S. Kierkegaard annotò nel suo Diario: «sto cercando di stringere più intimamente il mio rapporto al Cristianesimo. Perché finora io ho lottato per la sua verità quasi tenendomi in un certo modo fuori di esso: ho portato la Croce di Cristo in un modo puramente esteriore, come Simone il Cireneo».
Si, è questo che vogliamo vivere ‘ stringere più intimamente il nostro rapporto con Cristo stesso -, consapevoli che la nostra debolezza non è un ostacolo all’amore: ‘chi ti separerà dall’amore di Dio ”. Perciò poniamo tutta la nostra fiducia in Dio, perché sappiamo della nostra caducità, della nostra provvisorietà e instabilità in questa vita: «sì, è come un’ombra l’uomo che passa. Sì, come un soffio si affanna, accumula e non sa chi raccolga. Ora che potrei attendere, Signore? E’ in te la mia speranza» (Sal 39, 8). Amen.