L’Avvento è un “tempo della nostra vita”, meglio è un “tempo per la nostra vera vita”. E’ comunque “un tempo”. Ricordo cosa Sant’Agostino rispose agli scettici, i quali affermavano che il tempo non esiste. “Il passato non c’è più, il presente fugge e passa all’istante e il futuro non è ancora”, dicevano; e allora, cosa è il tempo? Risposta del sapiente Padre della Chiesa: “se me lo chiedi non lo so, se non me lo chiedi lo so”. Strana risposta, eppure profonda. C’è una ignoranza effettiva sul tempo, semplicemente perché il tempo non si lascia definire in un concetto, ma è disponibile a essere vissuto. Se lo vuoi definire non sai cosa è il tempo, se lo vivi lo sai: è l’ignoranza del concetto, è l’inadeguatezza della definizione. Infatti, ognuno di noi ha il gusto del tempo, “sa del tempo”, del proprio tempo, perché vive e la sua esistenza è temporale. Questo sapere del tempo ci impedisce di identificarlo allo scorrere dell’orologio, del cronometro (letteralmente “metro”, cioè misura del kronos, tempo). Lo sanno tutti gli innamorati quando dopo essersi incontrati lamentano che il tempo è trascorso troppo velocemente. Lo sanno anche gli studenti poco appassionati alla scuola, quando percepiscono che certe ore di lezione non terminano mai. Lo sanno ovviamente alcuni parrocchiani della domenica, i quali vanno senz’altro a messa, ma dentro le inevitabili preoccupazioni della vita (il pranzo, la pulizia della casa, etc. etc.), ritengono di doversi “sbrigare” e perciò malsopportano le prediche lunghe (anche qualora fossero spiritualmente sapienti o esistenzialmente toccanti); insomma, si ha fretta e poi, alla fin fine, per tutti, “il tempo è denaro”. Lo è anche il tempo vuoto (dal lavoro) della domenica.
Il tempo non è dunque kronos, non sono i minuti che passano, ma è l’anima della persona che si distende e respira, si riposa e avanza, rallenta e riprende più spedita il cammino alla ricerca del bello, del bene, del vero, del significato delle cose che la circondano, della dignità dell’altro-persona che le sta davanti e invoca un gesto di amicizia, di vicinanza, di compassione. Quando l’Altro è Dio, allora il tempo umano è sempre l’anima della persona che attende un suo avvento, attende una sua manifestazione. Tutti noi attendiamo una illuminazione che dischiuda nuovi orizzonti al nostro esistere e ci elevi dalla pozzanghera in cui spesso ci gettiamo alla ricerca di piaceri effimeri, superficiali, futili, che non ci rendono felici, ci impediscono di arrivare svegli alla vera meta, la nostra gioia.
Allora si capisce che il tempo di Avvento non è semplicemente un certo numero di giorni che ci portano diritti al Natale (lo è anche, liturgicamente); piuttosto è attesa di un accadimento che cambi la qualità del nostro tempo e lo renda finalmente “tempo umano”. Ecco come si attiva subito un processo di umanizzazione del tempo, per il solo fatto che si attende. L’attesa apre il cuore alla speranza e rompe il cerchio del “tempo alienato” in una attitudine materialistica e consumistica che ha tutti convinto della necessità del lavoro frenetico per “far soldi”, per accumulare sempre più beni, da cui verrebbe soltanto la sicurezza: beni materiali da guadagnare, da accrescere, da tenere egoisticamente per sé, senza nessuna partecipazione sociale. Il fatto di trovarsi in emergenza economica, nella transizione di questa crisi finanziaria che sta facendo tremare un po’ tutti, rischia di ingrandire questo ripiegamento su se stessi, approfondendo nell’animo di ogni persona la tendenza sociale alla desolidarizzazione, alla indifferenza del più povero e del più disagiato. Insomma l’egoismo del narcisista e dell’edonista si offende alla sola idea che è necessario per tutti abbassare lo standard di vita, inoltrarsi verso uno sviluppo sostenibile e un commercio equosolidale. In questo vortice, però, il tempo umano si perde e nulla si attende, nemmeno un “futuro migliore”, impantanati come si è nell’attuale presente, preteso eterno.
Tuttavia, “nessun presente è degno dell’uomo”. Ecco l’importanza dell’Avvento, tempo propizio, kairòs del Dio che “avviene”. L’Avvento chiede che il tempo parli il linguaggio della speranza, dell’utopia: interrompe così la catena egoistica degli affari da proteggere e sviluppa dinamiche opposte, quelle del dono generoso, dell’apertura fraterna, del servizio umile e silenzioso, della carità. L’attesa orienta la direzione del cuore. Si deve attendere, ma non si può “aspettare Godot” (un dio che non giunge mai). La fede cristiana – nel tempo di Avvento – provoca l’attesa dell’uomo a proiettarsi su cose importanti, essenziali, profonde, divine, sulla nascita di un bimbo a Natale. L’Atteso – per i cristiani- ha un nome, Gesù il Salvatore, ha una storia, ha un messaggio di liberazione, di vita, porta una promessa di felicità. Attendiamo perché avvenga la gioia desiderata dal nostro cuore inquieto e attendiamo nelle fatiche di ogni giorno, senza stancarci mai.
Verrà, verrà, di sicuro verrà. A Natale, verrà, Lui, la Parola del Dio vivente. Verrà a “zittire chiacchiere mie” (C. Rebora) con potenza di una Parola che può dare nuovo gusto al parlare degli uomini. Verrà con la presenza di una Parola fatta carne e si presenterà davanti agli uomini per essere accolta con fede. Già! con una fede cristiana, cioè una fede che Le corrisponda, operosa nella carità. Una fede che non pretenda incontrare la persona stessa del Figlio di Dio – nel piccolo di Betlehem che nasce a Natale -, semplicemente perché vi crede con la testa e non con il cuore, vi aderisce con il sentimento e non con la ragione, si affida con l’intelligenza e non con il corpo, ma piuttosto vi crede con la totalità dell’essere umano e soprattutto vi crede per vivere e per operare.
Il tempo liturgico di Avvento ci istruisce bene su come si attende il Figlio di Dio nella carne, su come si attende il Natale del Signore della vita. L’uomo vero, perché “gloria” (manifestazione) del Dio vero. L’attesa in questo tempo punta diritto sull’uomo nuovo che in Lui si manifesta. Una nuova aurora per l’umano dell’uomo, che sia inestinguibile, un giorno umano che non tramonti mai, per splendore e bellezza. E’ l’uomo che è tutto amore, tutto vicinanza e prossimità, amicizia e solidarietà. Dal Natale in poi, la Sua pro-esistenza rivela l’agape/carità che Dio è dall’eterno e meraviglia gli umani perché “questa umanità” – trasparenza di una presenza personale di Dio – non se ne sta negli abissi dei sottofondi marini, o nel più alto dei cieli, piuttosto abita tra le case della gente, avanza discreta per le strade degli uomini, si insinua nei crocicchi degli emarginati, penetra nelle fessure degli afflitti, si lascia ascoltare nella sordità dei morenti, là dove le tenebre scendono sulla città degli uomini, e non disdegna nemmeno di “sedere alla mensa dei peccatori”.
Tanto grande e infinita è la misericordia di Dio. D’altronde, questo è l’annuncio e così viene letto l’Evento del Natale, dell’avvicinarsi personale di Dio Padre, nel Figlio, per la potenza dello Spirito santo, agente nel grembo di Maria, il terreno fertile che dona il frutto più grande e più bello: “ha avuto misericordia”. E’ un atto di misericordia, il più grande e il più bello. Il suo messaggero, il Battista, doveva essere così nominato. “Si chiamerà Giovanni”, cioè Jo-hannah (= Dio si è piegato e ha avuto misericordia).
Tempo di Avvento? Si, un Avvento vero per un Natale santo. Che l’avvento entri nel tempo, lo qualifichi, esalti la sua dignità, lo faccia diventare “tempo umano”. Lo diventerà umano, se gli uomini impareranno ad assomigliare di più a Dio che li ha creati a propria immagine e somiglianza; se gli uomini si educheranno alla misericordia di Dio per noi umani.
Come vi ho spiegato nella mia Prima Lettera pastorale – Misericordia io voglio – la misericordia non è buonismo, anzi presuppone la capacita di indignarsi. Vi scrivevo infatti: “come si può esprimere la compassione di chi ha occhi, orecchi e cuore per vedere il dolore, sentire il gemito, provare una sincera pena spesso impotente? […] indignarsi è la garanzia della stessa misericordia, che si fa grido profetico contro l’ingiustizia proteiforme di Caino: “il sangue di tuo fratello grida verso di me”. Non si indignò Gesù quando dovette riconoscere l’ottusità e la cecità dei suoi fratelli o quando si confrontò con lo strapotere del male in tutte le sue forme degradanti? Indignarsi per il male nel mondo, per il peccato degli uomini, appare come una condizione per poter esercitare la misericordia”.
Per educarsi alla misericordia di Dio in questo tempo umano di Avvento e giungere da testimoni di un cristianesimo vivo al santo Natale, potremmo osare l’iniziativa di qualche “esercizio spirituale”. E’ un esercizio “secondo lo Spirito di Colui che viene” e pertanto è esercizio spirituale che si compie e si realizza nella nostra carne, nella nostra esistenza concreta, nella praticità di azioni operose che profumano di carità e misericordia. “Esercizi spirituali”, dunque, per i cristiani della Chiesa di Noto potrebbero essere i seguenti:
1. leggere e meditare insieme ad altri la Lettera pastorale sulla misericordia: è ovvio, la si può (e la si deve anche) leggere da soli, ma farlo insieme ad altri significa “cercare l’aiuto dell’intelligenza spirituale di altri fratelli” e quindi offrire ad altri la propria, per comunicare nella fede e sentire con la Chiesa, facendo comunione, compaginando così – anche per questa via – il corpo ecclesiale nel suo splendore, nell’amore dei fratelli che “stanno insieme” (“come è bello che i fratelli stiano/vivano insieme”);
2. proporre suggerimenti – meditando insieme agli altri la Lettera pastorale – per superare certa “fede morta” (cfr san Giacomo) che vuole affermarsi come fede senza le opere, che si esprime come ascolto della Parola di Dio senza nessuna pratica (così illudendoci d’essere credenti), e che si manifesta come celebrazioni rituali dentro il tempio senza nessuna missione per le strade degli uomini;
3. per i cristiani cattolici della domenica non dovrebbe bastare “andare a Messa” per obbedire al comandamento di Dio che chiede di “santificare la festa”, ma sarebbe utile tracciare un elenco di “opere di misericordia corporali” – sempre insieme ad altri –, che nella parrocchia, tutta la comunità cristiana dovrebbe vivere per onorare realmente il comandamento del Signore e restare all’altezza della grazia eucaristica ricevuta nel sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo, del dono della sua vita per amore.
E allora, armiamoci di coraggio per combattere la buona battaglia della fede in questo Avvento. E’ una battaglia che si fa non contro i mulini a vento, ma contro il male che affligge in tutti i settori della società gli uomini e le donne di oggi. Duc in altum, dunque, si può fare sempre di più e, quanto a magnanimità, a larghezza d’animo, non c’è un limite all’apertura infinita del nostro cuore. Tocca ora a noi, per dare qualità umana al nostro tempo. Certo che è difficile l’impresa dell’amore cristiano! Non è però impossibile. Non siamo soli. Lo Spirito del Risorto è in noi. E’ Lui che ci educa ad attendere bene e a gustare l’Avvento come tempo per insistere con maggiore energia nell’educazione alla misericordia: purché non si trasformi la misericordia in dottrina, ma piuttosto cominci a diventare stile di vita, costume giornaliero, ethos civile, utopia del futuro che già viene, mentre il Figlio della misericordia avviene e ci accompagna nel nostro cammino di viandanti verso la Patria celeste.
Perciò in questo Avvento non smetteremo di pregare di giorno (e possibilmente anche di notte, perché a nessuno si proibisce di fare qualche preghiera svegliandosi di notte e a nessuna parrocchia cattolica si proibisce di organizzare qualche adorazione notturna): “mostraci o Padre la tua misericordia”.
Auguro a tutti buon tempo di Avvento per un Santo Natale.