Natale: è evento che cambia la storia e non buonismo sentimentale
Le feste natalizie, ogni anno, inducono in ciascuno un sentimento di particolare bontà: a Natale si è tutti un pò più buoni. Il pensiero che Dio stesso in persona (= nella persona del Figlio) venga ad abitare tra gli uomini e che lo faccia nascendo in una condizione miserevole (= in una grotta), fuori dalla mura della città (= buttato fuori) commuove il cuore più freddo, suggerisce compassione. Il bimbo nato a Betlemme diventa poi il simbolo dei tanti immiseriti della terra, dei tanti piccoli di uomini senza cibo o vestiti: quanto basta per decidersi ‘ una volta tanto (o una volta all’anno)- per un piccolo gesto di solidarietà ‘chiamato in gergo tecnico, ma non senza equivoci, ‘carità’.
Penso spesso alle ‘anastesie locali o totali’ di noi cristiani (mi ci metto dentro per primo, per non dare l’impressione di far del moralismo) nel tempo che ricorda l’Incarnazione del Figlio di Dio, o forse sarebbe meglio dire, nel tempo in cui si fruisce esteticamente della sua apparizione sul teatro del mondo: alla fine chissà perché ‘il presepe è proprio bello da vedere’, notando i particolari e i singoli personaggi della scena centrale (Maria, Giuseppe, il bambino, il bue e l’asinello etc.).
Vorrei attirare l’attenzione sui ‘pastori’, quelli che riconoscono nel segno umile di un nascituro una presenza straordinaria di Dio alla vita dell’uomo perché ‘poveri’ (senza grosse pretese o fantasie su Dio, desiderosi di vederlo e basta). Beata quella condizione di povertà tanto preziosa per accedere alla visione del nuovo volto di Dio mostrato nel piccolo di Betlemme quanto inesorabilmente sfuggita da tutti quelli che ‘religiosamente’ pretendono vivere il santo Natale e ‘irreligiosamente’ ne evadono il suo potente significato di appello al cambiamento radicale della vita: già, perché di questo si tratta a Natale.
L’Incarnazione del Figlio di Dio dice un fatto: Gesù non è semplicemente un uomo tra gli altri, ma è l’uomo vero, pieno, perfetto, perché è identico a Dio, è Dio nella sua identità di Figlio. Questa verità, che riguarda Lui, ne sviluppa però altre che toccano significativamente noi. Almeno a una di queste vorrei brevemente accennare per meglio assaporare il gusto di un Natale ‘santo’ perché santificante, un Natale cioè che porti santità nella vita degli uomini, in termini di nuova amicizia, di riconciliazione degli affetti feriti, di rinnovamento fiducioso della fratellanza tradita, di rinascita di vera e giusta solidarietà, al di là della verbosa retorica dei discorsi di occasione.
Tento una sola puntuale considerazione:
In Gesù, il Figlio di Dio è tra noi. I suoi occhi racchiudono il mistero di uno sguardo che manifesta la cura infinita di Dio per l’umanità. In Lui il Padre ci guarda in modo nuovo, dichiarando la sua radicale donazione e dedizione alla nostra vita. Ecco la buona novella: in Gesù Dio non è più genericamente Dio, ma è il Padre dell’amore e della misericordia. La fede che accoglie questo annuncio cambia la storia, poiché Dio non è allora una entità anonima collocata nell’alto dei cieli (per altro mai raggiungibili) ‘ Dio non è un sentimento vago di infinito o la percezione del Tutto avvolgente ogni cosa -, ma è Padre, cioè un Dio che ha volto, che ha nome, che è persona e che, pertanto, agisce, ama, entra in contatto, pretende spazio nella esistenza quotidiana di ogni uomo. Dall’Incarnazione in poi, a Dio si accede nella ‘carne’ dell’uomo (‘non puoi dire di amare Dio che non vedi se non ami il fratello che vedi’ o ‘chi dice di amare Dio e non osserva i comandamenti è un bugiardo’): ogni processo religioso di spiritualizzazione che distacchi Dio dalla vita concreta della gente è una falsificazione del Padre di Gesù. E se la vita umana scorre tra gli affetti e il lavoro, occorrerà allora che questo Dio incarnato proprio di questo si interessi. O meglio, bisognerà che i cristiani mostrino che Dio si è interessato della vita, da sempre e, particolarmente da quando facendo alleanza con Abramo gli promise figli e terra (= affetti e lavoro), fino a Gesù, il nato da un donna, Figlio di Dio, nella cui vicenda di solidarietà verso ogni uomo, di sofferenza e di morte-risurrezione, il Padre manifesta il profondo affetto che lo lega all’umanità: un legame nel quale il Figlio, per rivelare l’amore del Padre, gioca la sua stessa esistenza, spingendo il dono della vita fino a morire sulla croce.
Penso spesso alle ‘anastesie locali o totali’ di noi cristiani (mi ci metto dentro per primo, per non dare l’impressione di far del moralismo) nel tempo che ricorda l’Incarnazione del Figlio di Dio, o forse sarebbe meglio dire, nel tempo in cui si fruisce esteticamente della sua apparizione sul teatro del mondo: alla fine chissà perché ‘il presepe è proprio bello da vedere’, notando i particolari e i singoli personaggi della scena centrale (Maria, Giuseppe, il bambino, il bue e l’asinello etc.).
Vorrei attirare l’attenzione sui ‘pastori’, quelli che riconoscono nel segno umile di un nascituro una presenza straordinaria di Dio alla vita dell’uomo perché ‘poveri’ (senza grosse pretese o fantasie su Dio, desiderosi di vederlo e basta). Beata quella condizione di povertà tanto preziosa per accedere alla visione del nuovo volto di Dio mostrato nel piccolo di Betlemme quanto inesorabilmente sfuggita da tutti quelli che ‘religiosamente’ pretendono vivere il santo Natale e ‘irreligiosamente’ ne evadono il suo potente significato di appello al cambiamento radicale della vita: già, perché di questo si tratta a Natale.
L’Incarnazione del Figlio di Dio dice un fatto: Gesù non è semplicemente un uomo tra gli altri, ma è l’uomo vero, pieno, perfetto, perché è identico a Dio, è Dio nella sua identità di Figlio. Questa verità, che riguarda Lui, ne sviluppa però altre che toccano significativamente noi. Almeno a una di queste vorrei brevemente accennare per meglio assaporare il gusto di un Natale ‘santo’ perché santificante, un Natale cioè che porti santità nella vita degli uomini, in termini di nuova amicizia, di riconciliazione degli affetti feriti, di rinnovamento fiducioso della fratellanza tradita, di rinascita di vera e giusta solidarietà, al di là della verbosa retorica dei discorsi di occasione.
Tento una sola puntuale considerazione:
In Gesù, il Figlio di Dio è tra noi. I suoi occhi racchiudono il mistero di uno sguardo che manifesta la cura infinita di Dio per l’umanità. In Lui il Padre ci guarda in modo nuovo, dichiarando la sua radicale donazione e dedizione alla nostra vita. Ecco la buona novella: in Gesù Dio non è più genericamente Dio, ma è il Padre dell’amore e della misericordia. La fede che accoglie questo annuncio cambia la storia, poiché Dio non è allora una entità anonima collocata nell’alto dei cieli (per altro mai raggiungibili) ‘ Dio non è un sentimento vago di infinito o la percezione del Tutto avvolgente ogni cosa -, ma è Padre, cioè un Dio che ha volto, che ha nome, che è persona e che, pertanto, agisce, ama, entra in contatto, pretende spazio nella esistenza quotidiana di ogni uomo. Dall’Incarnazione in poi, a Dio si accede nella ‘carne’ dell’uomo (‘non puoi dire di amare Dio che non vedi se non ami il fratello che vedi’ o ‘chi dice di amare Dio e non osserva i comandamenti è un bugiardo’): ogni processo religioso di spiritualizzazione che distacchi Dio dalla vita concreta della gente è una falsificazione del Padre di Gesù. E se la vita umana scorre tra gli affetti e il lavoro, occorrerà allora che questo Dio incarnato proprio di questo si interessi. O meglio, bisognerà che i cristiani mostrino che Dio si è interessato della vita, da sempre e, particolarmente da quando facendo alleanza con Abramo gli promise figli e terra (= affetti e lavoro), fino a Gesù, il nato da un donna, Figlio di Dio, nella cui vicenda di solidarietà verso ogni uomo, di sofferenza e di morte-risurrezione, il Padre manifesta il profondo affetto che lo lega all’umanità: un legame nel quale il Figlio, per rivelare l’amore del Padre, gioca la sua stessa esistenza, spingendo il dono della vita fino a morire sulla croce.
23 Dicembre 2009
22-12-2009