Quando nasce un bambino, con felice espressione si dice che « è venuto alla luce ». Solo questo passaggio permette la continuità della vita. Quando un uomo muore si dice che « si è spento ». E significativo che il linguaggio comune identifichi la vita con la luce e la morte con la tenebra. Luce e tenebre esprimono simbolicamente la condizione umana nelle sue contraddizioni: non solo vita-morte, ma anche verità-menzogna, giustizia-ingiustizia. Lo stesso avvicendarsi cosmico del giorno e della notte sta ad indicare la fondamentale importanza del rapporto luce-tenebra: avvolto nella tenebra il mondo perde la sua consistenza, le cose non hanno contorno né colore, l’uomo è cieco, inerte, afferrato da un senso acuto di solitudine, di smarrimento, di paura. Il primo bagliore risveglia la vita, la gioia e la speranza.
Breve riflessione del Vescovo di Noto Mons. Antonio Staglianò
La vita è “cammino” e camminando s’apre cammino (Arturo Paoli). Per la nostra condizione umana – dobbiamo ammetterlo- la purezza non sta all’inizio ma alla fine di un percorso possibile di santità. Perciò la quaresima è un cammino di purificazione, insieme a Cristo e davanti a Lui. Di Lui abbiamo infatti bisogno, della sua vicinanza premurosa e della sua prossimità compassionevole. E’ vero: senza di Lui non possiamo far nulla.
Dopo la tentazioni nel deserto, dopo la contemplazione della bellezza di Dio sul Tabor, dopo aver scoperto insieme alla Samaritana quanta sete abbiamo di Dio e della sua presenza, in questa settimana la Parola di Dio ci dice cosa significa avere luce e vederci chiaramente per uscire dalla tenebra in cui siamo avvolti. Cristo è colui che disseta e da luce: se alla Samaritana aveva detto di essere lui l’acqua viva al cieconato dirà di essere la luce del mondo quella che illumina il cammino di ogni uomo. La malattia, il dolore e la sofferenza sono diventati nel nostro tempo un problema molto serio, specialmente se colpiscono gli innocenti, chi non ha nessuna colpa se non quella di nascere (situazione paradossale: perché in realtà nascere è una grande benedizione e non una colpa).
Gesù è la luce del mondo, è luce per tutti. Come tale illumina e permette di vederci. Ma cosa c’è da vedere o da vedere meglio?
Esistono cecità molto profonde: tanto più profonde quanto meno vengono riconosciute. Pensiamo alla cecità religiosa di coloro i quali pensavano – seconda la teoria della retribuzione – che alla sofferenza corrisponde rigidamente una colpa. Ora, il cieco incontrato da Gesù è nato proprio così: non ha peccato lui, e allora chi? I suoi genitori, ovviamente: il peccato annidato nell’anima dei padri ricadrebbe in forma di male nel corpo, nella mente o nello spirito dei figli.
Gesù si avvicina e guarisce il cieconato e permette di vedere la salvezza possibile che viene da Dio e dalla fede: “credi tu nella liberazione che il Messia viene a portare?”. Il cieconato crede: è questa la sua forza. Il Messia avrebbe portato un “riscatto” di tutti i bisognosi: avrebbe fatto camminare gli storpi, udire i sordi, vedere i ciechi e avrebbe annunciato la buona novella del Regno di Dio come pace, amore, nuova fratellanza, giustizia e gioia. Il cieco ci crede e per la potenza dello Spirito Gesù lo guarisce dalla sua nativa cecità. Questa condizione – nativa cecità – appare come una metafora piena di significato: è nato così, cieco, emblema per tutti coloro che vengono al mondo. Non nasciamo tutti ciechi? Cioè bisognosi di vedere: acquisiamo la nostra capacità di vedere a poco a poco. Siamo capaci di vedere, ma non ci vediamo da subito. L’oscurità delle tenebre avvolgono i nostri occhi che “usciti dal grembo della madre” restano chiusi perché refrattari alla luce. A poco a poco gli uomini aprono gli occhi e attivano un “processo” attraverso il quale impareranno a vedere la realtà così come la realtà è effettivamente. Non dobbiamo mai dimenticare che per vederci non basta “aprire gli occhi”: è necessario imparare qualcosa, entrare in un cammino in cui tutti i sensi si aiutano e per il quale il bambino appena nato riconosce la madre più per l’olfatto che per la vista. Vedere le cose, gli oggetti che ci stanno davanti è un evento meraviglioso e complesso. Domandiamoci ora: quanto lo è l’evento che ci permette di guardaci dentro le profondità del nostro cuore, di vedere dentro il cuore degli altri, di discernere con una “vista capace di riconoscere la realtà” i fatti dell’esistenza quotidiana.
E allora, chi è il cieco e chi è il vedente?
Quanti di noi – ovviamente togliendosi dalla presunzione della vita e da certa ubriacatura dell’orgoglio personale- possono dire: “io ci vedo e non ho bisogno che qualcuno come Gesù mi dia la vita, mi sani dalla mia cecità”. Sono convinto che nessuno lo possa seriamente dire. Tutti invece siamo nella condizione del cieconato, nel bisogno che ci fa invocare il dono di un aiuto e ci fa gridare “Gesù Figlio di Davide abbi pietà di me”. Cosa vuoi? Che io ci veda Signore.
Il male è vasto nel mondo. Troppo diffuso per non essere sconfortante. E’ un male che si manifesta in tante malattie, che procura dolore, ma che si radica nel profondo dell’anima e non si risolve semplicemente “assumendo l’aspirina”. Lo sviluppo della scienza aiuta noi umani a risolvere tanti problemi legati al dolore fisico e psicologico. Resta però – quello della scienza – un approccio banale e superficiale se si dichiara risolutivo dei problemi cui siamo inchiodati dalla sofferenza umana. Esiste infatti un soffrire tra gli uomini che nessuna medicina potrà mai dissolvere: è il soffrire a causa delle tenebre che obnubilano la nostra vista e ci impediscono di guardarci come fratelli, riconoscendoci come destinatari del dono, dell’amore. Quanta cecità nelle guerre, nelle lotte fratricide, nelle sopraffazioni dei più forti nei confronti dei più deboli, nel calpestare la dignità umana dei piccoli, dei fragili, delle donne, attraverso la mercificazione dei corpi, nelle tante forme della schiavitù nuovamente possibile anche nel nostro Occidente dell’opulenza. Ancora, quanta cecità nelle società dove la solidarietà umana perde sempre più colpi e l’individualismo esacerbato occupa sempre più spazi, mentre la competitività mercantile invade le coscienze e ci convince che siamo tutti “lupi” l’uno per l’altro.
E’ vero? Siamo lupi destinati a scannarci, ad aggredirci, a fagocitarci gli uni gli altri? Dio non ci vede così e Gesù ci porta la luce di Dio, cioè il suo sguardo sulla nostra vita. Noi siamo creature amate e pensate dall’eterno, figli dell’unico Padre, fratelli tra noi, chiamati alla comunione e all’amore, a volerci bene fattivamente, “nei fatti e nella verità”, corresponsabili del nostro destino, costruttori della civiltà umana dell’amore. Gesù fa che noi vediamo di questa vista, fa che possiamo vincere la nostra cecità e vederci come il padre tuo ci vede. Gesù Figlio di Davide abbia pietà di noi.
Guarigione dobbiamo chiedere, della vista dell’anima. Gesù si avvicina e opera oggi come allora lo stesso miracolo. Ci converte all’amore: ci toglie dall’amore di sé fino all’annientamento dell’altro e sanandoci e liberandoci ci introduce nell’amore vero, l’amore dell’altro fino alla rinuncia di sé.
Per operare questa risurrezione della nostra vista, ci vuole o no purificazione del cuore. Purifica il cuore e potrai vederci bene. Se il cieconato ora ci vede, ma non si converte nel cuore, l’acquisto di quella vista non gli servirà, anzi peggiorerà le cose, perché lo immetterà in un abisso di tenebra (quella barbarie dal volto umano che assume le forme con cui l’inimicizia della morte ci offende giorno dopo giorno) da cui il suo essere cieco lo aveva paradossalmente preservato.
In Gesù ora si manifestano le opere di Dio: la pedagogia di Dio vuole che dal male presente nel mondo si esca non con un intervento da Deus ex machina, ma con responsabilità e consapevolezza. Da qui l’urgenza di una conversione vera, di una radicale metanoia (un capovolgimento di mentalità a 360 gradi). Davanti al dolore e alla sofferenza, Gesù non si pone il problema di chi ha peccato per poi condannare: Egli è venuto a salvare.
Come si racconta in altri passi, Gesù chiede se c’è nel cuore del peccatore il desiderio della guarigione, simbolo della guarigione totale che tocca tutta l’esistenza. La salvezza che egli porta non è quella di uno stregone potente che ha la possibilità di utilizzare “medicine segrete e sconosciute”. A questa salvezza deve corrispondere la fede. Spesso Gesù dice, operando miracoli: “va la tua fede ti ha salvato”. La fede presuppone apertura e disponibilità verso l’operato di Dio. Occorre anzitutto riconoscere che Dio c’è e che è all’opera, senza pregiudizi di sorta, senza le mormorazioni dell’incredulità, la quale si fa un Dio a propria immagine e somiglianza e poi lo denigra e lo mette da parte perché non lo vede operare come si desidera. La fede invece accoglie il progetto di Dio che è progetto di amore e di superamento del male, di ogni male. E’ un progetto coinvolgente la nostra libertà e ci chiede di comprometterci nell’operare il bene. Chi invece teorizza a partire dalle proprie idee su questo progetto – come facevano i farisei del tempo – comincia a “fare salotto” sul progetto di Dio e alla fine si giustifica per non operare nulla, per non impegnarsi, per evadere la responsabilità cui la situazione di disagio e di sofferenza dell’altro appella: “non lasciarmi soffrire da solo”.
L’atteggiamento farisaico non si è concluso con l’epoca di Gesù, continua a insinuarsi in tutte le epoche e in tutti i cuori perfino quelli più moralmente predisposti a compiere la volontà di Dio.
L’esperienza del cieconato è anzitutto salvezza per lui, un cominciare a vedere che lo porta alla vista piena e compiuta, quella della fede che lo apre all’incontro con il suo Salvatore. Per questa via, egli ha ritrovato se stesso, potendosi vedere in relazione ad altri. Il “vedersi” e il “vedere” ha potuto gridare al miracolo, ma i suoi occhi ora riescono a vedere ben altro: che è stato raggiunto dalla multiforme grazia di Dio. Il cieco conclude il suo incontro con Gesù dicendo “Io credo” e si prostra dinnanzi al Figlio dell’Uomo. Anche noi con il cieco possiamo dire: ” Io credo Signore che tu sei la luce del mondo. Donami la grazia di riscoprire il valore del nostro battesimo e l’identità del nostro essere cristiani”.
Buona continuazione del cammino quaresimale, per rinascere a “vista nuova”.
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