Carissimi fratelli e sorelle in Cristo, cari amici, papà, mamme, fratelli e sorelle, figli e figlie, uomini e donne che abitate il territorio della nostra amata Diocesi di Noto, vi saluto nel Signore risorto da morte.
Abbiate pace e consolazione in Colui che “si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà” (cfr. 2 Cor 8,9).
Nel suo messaggio per la Quaresima, Papa Francesco ha voluto insistere su quest’aspetto del mistero di Cristo, il Buon samaritano che manifesta la sua ricchezza d’essere Figlio nella povertà del “prendere su di sé le nostre debolezze, i nostri peccati, comunicandoci la misericordia infinita di Dio”. Così, Papa Francesco invita tutti a farsi discepoli di Gesù e seguirlo nella “sua” povertà, riconoscendolo negli ultimi e nei poveri, impegnandoci con determinazione sulle strade della giustizia, dell’uguaglianza, della condivisione e della sobrietà: “l’amore rende simili, crea uguaglianza, abbatte i muri e le distanze”. Perciò, “ad imitazione del nostro Maestro, noi cristiani siamo chiamati a guardare le miserie dei fratelli, a toccarle, a farcene carico e a operare concretamente per alleviarle”. Sarà bello per tutti lasciarsi istruire dal Papa sulle tante forme della miseria, contro cui combattere: miseria “materiale”, ma anche “morale” e “spirituale”. Importante è comunque farsi interpellare su quanto conclusivamente egli afferma: “la Quaresima è un tempo adatto per la spogliazione; e ci farà bene domandarci di quali cose possiamo privarci al fi ne di aiutare e arricchire altri con la nostra povertà. Non dimentichiamo che la vera povertà duole: non sarebbe valida una spoliazione senza questa dimensione penitenziale. Diffido dell’elemosina che non costa e che non duole”.
A questa concretezza siamo oggi particolarmente convocati dalle condizioni generali di ristrettezza economica generata dalla crisi che stiamo attraversando. Questa “crisi materiale” genera anche tante “tristezze esistenziali” che toccano le nostre relazioni umane più sacre, come la famiglia, l’amicizia, la fi ducia, quasi inabissandoci “nella notte dove le tenebre sono più fitte”. È possibile allora che, in Quaresima, decidendo di seguire l’ammonimento del Papa, in gesti concreti di prossimità, cura, condivisione e solidarietà, possiamo percorrere – con Gesù – quella via crucis che ci salverà, proprio là dove abbiamo più bisogno di redenzione: l’umano in noi che si va perdendo in tante forme di barbarie che non indignano più nessuno, la bellezza umana in noi che più non splende nell’indifferenza dei cuori induriti dal consumo della società mercantile, la gioia umana in noi che degrada perché non si riconosce più l’amore vero, nell’abbaglio della ricerca del piacere per sé in faccia alla sofferenza degli altri. É lo stesso Santo Padre a denunciarlo nella sua illuminante Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium (La gioia del Vangelo) dove afferma che “quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete” (n. 54).
Ecco però la gioia più grande di questa Quaresima, secondo Papa Francesco: sta nel nostro impegno a comunicare e a “testimoniare a quanti vivono nella miseria materiale, morale e spirituale il messaggio evangelico, che si riassume nell’annuncio dell’amore del Padre misericordioso, pronto ad abbracciare in Cristo ogni persona”.
Per questo nel mio messaggio di Quaresima a voi tutti, carissimi fedeli della Chiesa locale di Noto, voglio domandarmi, insieme con voi: come Dio resta Padre nel nostro dolore?
Come sopravvissuti dopo una tempesta, pensiamo che il peggio sia passato e finalmente si possa ritornare alla riva delle nostre certezze e delle nostre sicurezze e tirare un respiro di sollievo, recuperando le forze. Spesso però e per tanti, la vita ci pone senza tregua dinanzi ad ulteriori momenti di crudele e dolorosa prova, tanto da lasciarci paralizzati ed inermi in mezzo al mare, sulla barca dello sconforto, della paura del domani e del peso di quanto ci sarà chiesto di sopportare.
Alcuni interrogativi nascono spontanei nel profondo del nostro cuore. Gli stessi che in questi giorni sto ascoltando dalla bocca di mio papà Gregorio, inchiodato al letto del suo dolore: “Quanta sofferenza dovrò ancora patire? Perché tutto questo capita a me? Gli altri vivono sereni, perché per me non c’è mai pace? Che cosa ho fatto di male nella mia vita per meritare tutto questo?”. È veramente vasto il vociare della sofferenza umana, come un grido unico che si eleva e raggiunge l’orecchio di Dio: è sempre il grido di Abele ucciso dal fratello, del suo sangue innocente che invoca giustizia.
Questi gli interrogativi che attanagliano spesso la nostra mente e talvolta induriscono il nostro cuore. Ci portano a guardare quanti sembrano condurre un’esistenza felice con invidia e cattiveria, quasi che fossero colpevoli delle nostre sciagure. Questo ci porta non di rado a chiuderci inevitabilmente nella solitudine del nostro pessimismo, convincendoci che nessuno possa capirci. Altri, per questo, giungono a pensare che Dio non esista o che ci sia solo per alcuni, i più fortunati, quelli ai quali va tutto diritto, quelli che hanno realizzato tutti i loro progetti. Così, siamo come trasportati a sentirci “figliastri” e non “figli” amati da Dio sin dall’eternità. La ferita del non sentirci amati da Dio crea un solco così profondo in noi da farci sperimentare la condizione avvilente di debolezza e di impotenza rispetto alle negatività della vita. E allora perché credere? Come confidare in Dio quando non riusciamo più a sentirlo? Come pregare? Che cosa chiedere a Dio? E soprattutto come sperare in un Dio Padre misericordioso, in un Dio Padre giusto, in un Dio Padre Amore: come resti Padre nel nostro dolore?
La domanda è seria, se Gesù stesso l’ha vissuta per noi sulla croce. Nel tempo del crudo dolore del morire crocefisso, per la prima e unica volta, Gesù, sentendosi come abbandonato, chiama l’Abbà suo, “Dio”. É come se la morte stringesse la sua morsa letale, scoccando una freccia avvelenata nel cuore di Gesù, puntando a distruggere il suo sentimento d’essere Figlio e il Padre restasse per Lui in quel momento solo “Dio”, nel grido: “mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?” (cfr. Mc 15,34).
Effettivamente, carissimi, come resta Padre il nostro Dio: quando per i più, esistere significa guardare da lontano una tavola imbandita cui non potranno mai sedere; quando la storia ci relega costantemente ai piedi della Croce, togliendoci ogni possibilità di replica e avvilendo i nostri tentativi di alzare la testa dalle miserie di un quotidiano veramente disumano. Affermare semplicemente che Dio è Padre provvidente, è difficile e risulta astratto, aleatorio, talvolta ideologico. Il credere che siamo custoditi dal Signore dovrebbe darci la forza per vivere in pace, serenamente. Non sempre è così, perché abbiamo bisogno di conferme e di toccare con mano la Sua presenza, altrimenti ci sentiamo smarriti. L’immenso mistero della sofferenza, infatti, non si può liquidare con risposte banali, né tantomeno storpiando l’immagine di Dio a nostro uso e consumo, facendolo diventare indifferente e sadico, considerando pertanto il dolore come grazia o punizione. In tal senso, la domanda che resta sospesa nel dolore di molti è: dov’è Dio in questa sofferenza? Perché avere fede in un Dio che resta Padre?
Tutti nella vita attraversiamo momenti di scoraggiamento, nei quali sembra che non vada bene nulla, che nessuno ci capisca, che intorno a noi ci sia solo male, momenti di disorientamento e di perdita del controllo che mettono a dura prova il nostro essere di Cristo: in una società dove essere felici si riduce banalmente ad avere una bella casa, un lavoro gratificante, sposare una persona in vista, ottenere ciò che si desidera a qualsiasi costo, essere circondati da persone che ci adulano, andare in vacanza ogni anno, comprare vestiti di marca, permettersi economicamente la signora delle pulizie, non avere altro pensiero che scegliere il ristorante dove cenare con gli amici. É difficile, dunque, razionalmente conciliare questa dimensione idilliaca in cui tutto sembra perfetto e in cui non sono ammesse sbavature di alcun genere, con la vita dei tanti che combattono ogni giorno, con lo scacco della fine di un rapporto sentimentale o di un tradimento, con l’incapacità di affrontare una malattia grave che incombe, con il dolore per la scomparsa di una persona cara, con lo sconforto della perdita del lavoro.
Proprio allora non dovremmo mai dimenticare che, in Cristo, gli uomini felici e beati sono “i poveri in spirito”: quelli, cioè, che realizzano la loro umanità, riconoscendo la propria povertà, la propria debolezza e la propria dipendenza da Dio. Sono coloro i quali, anche nei momenti pesanti e difficili della storia, con il coraggio della fede, affrontano la realtà così come è e non come la vorrebbero.
Sorgano allora i credenti nel Cristo risorto, quelli che sanno per esperienza, perché l’hanno assaporata nella loro quotidiana esistenza, la promessa di Gesù, gridata dall’Apostolo Paolo: “niente e nessuno potrà separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (cfr. Rm 8,39). Si manifestino, cioè vengano alla luce i cristiani che, rivolgendosi a Dio nella oscurità delle tribolazioni della vita, ma nella speranza del giorno del Signore, sanno accettare con pazienza dalle sue mani la Croce, nella consapevolezza che quando il nostro operare non è sufficiente e non vale a molto, Dio non ci lascia mai soli: sarà lo stesso Dio, nostro Padre, ad attivare percorsi di grazia ed intercessione, perché questa sia la terra dei meriti che si acquisiscono con le fatiche e i patimenti e non del riposo del disimpegno e della superficialità. Capiremo tutti che il fi ne ultimo della nostra preghiera e del nostro impegno di vita sarà desiderare la gioia della Croce, cioè dell’amore vero, che spinge il dono della vita fi no a morire per le persone amate. Soltanto in quest’ottica, allora, la pazienza dell’attesa e dell’accettazione non è la dimensione del succube e del vinto dalla vita, bensì è il trionfo dei forti che offrono il sacrificio perfetto a Dio in attesa di incontrarlo, Padre di misericordia e di perdono nell’ora della morte, per essere introdotti da “figli” nel Paradiso.
Ha ragione Papa Francesco: “vi è una sola vera miseria: non vivere da fi gli di Dio e da fratelli in Cristo”. Prendere la propria Croce e fare la volontà di Dio è parte del prezzo da pagare (“il giogo soave e leggero” – cfr. Mt 11,29) se si vuol essere discepoli di Gesù. Essere cristiani non è la decisione di un momento, ma la scelta di una vita con Dio, condividendo la Sua volontà, non cedendo all’angoscia né all’oppressione interiore, ma lasciandoci rimettere in cammino dal Signore, imparando a guardare alla Croce come il culmine dell’Amore, come un prezzo dell’Amore, come una postazione privilegiata da cui con più insistenza contemplare l’Amore e rispondere all’Amore.
Recuperiamo in questa Quaresima il nostro rapporto con “Colui che hanno trafitto” (cfr. Gv 19,37) per un eccesso di amore, per essere disposti a patire le Sue sofferenze, senza mezze misure e ripensamenti, seguendolo sempre, sia quando si tratta di entrare con Lui trionfanti in Gerusalemme, sia quando si tratta di seguirlo nel Getsemani e fi no alla Croce, nella consapevolezza che Dio non affida a nessuno un peso più grande di quello che sia in grado di sopportare.
La nostra salvezza è, dunque, avere Dio nel cuore ed essere in comunione con Lui costantemente attraverso la preghiera: essere fi gli nel Figlio e restarlo nella forma concreta di un discepolato che a poco a poco ci fa essere come Lui, come Cristo, cioè cristiani. É l’amicizia indissolubile che ci lega a Lui a segnare e cambiare la nostra vita, riconoscendo di non farcela da soli e di avere bisogno di aiuto. Potremo allora accogliere senza riserve il Salvatore, che entra nella nostra vita, e inizia un’opera di redenzione e ci salva da noi stessi, dal nostro “carattere”, dai nostri difetti, dai nostri peccati e ci rende capaci di una vita buona.
Pensiamo bene, dunque: la sofferenza, in quest’ottica, è obiettivamente l’unico evento veramente nostro che possiamo offrire a Dio tramite una serena accettazione, trasformando ogni dolore in validissima preghiera, arrivando persino a considerarlo come momento prezioso di comunione con Gesù che è venuto sulla Terra proprio per morire in Croce e donarci la vita vera. Aderiremo allora alla sua persona, convinti che “se la fede non ha le opere è morta, se la fede non segna la vita, non è fede” (cfr. Gc 2,20). Ci affideremo alla Sua grazia che ci dà la capacità di vivere, non-ostante quel problema, che ci permette di attraversare il problema e di superarlo, che ci dà coraggio, che consola, che rende capace di affrontare le difficoltà. La fede non risolve automaticamente i problemi, non elimina le spine; aiuta a sopportarle, a superarle, a vivere nonostante quelle difficoltà. La fede, nel momento in cui riconosciamo di essere deboli e comprendiamo che la nostra debolezza ha un senso, rende possibile il manifestarsi della potenza di Dio che ci aiuta a non aver paura, ad accettare le infermità, gli oltraggi, le necessità, le persecuzioni, le angosce sofferte, affidandoci a Cristo, mettendoci nelle sue mani, fi dandoci di Lui perché tutto è possibile in Colui che ci dà la forza. Solo affidandoci alla Sua grazia sperimenteremo la gioia, quella gioia che come ci ricorda il Santo Padre nell’Evangelii Gaudium, non è un sentimento superficiale ed effimero di euforia o piacevolezza, ma l’atteggiamento di chi sa che la sofferenza e la morte esistono, anzi, li ha attraversati sperimentando che la vita è più forte. Il contrario di questa gioia, afferma il Papa, non è il dolore, ma “una cronica scontentezza”, “un’accidia che inaridisce l’anima”, un “cuore stanco di lottare” che “non ha più grinta” (cfr. n. 277). Dio vuole la gioia e la felicità dell’uomo, e la vuole per tutti. “Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore” (n. 3).
Dimostrare di avere fede nel momento della difficoltà, quando sembra impossibile credere, significa operare concretamente con un atteggiamento nuovo, significa abbandonare schemi di fede teorica basati su verità astratte ed abbandonarsi all’esperienza dell’incontro con la Persona che coinvolge la nostra vita, che la segna, che ci fa innamorare, che ci conquista, affermando con certezza “so a chi ho creduto, a chi ho dato la mia fiducia”! Non ho creduto a delle idee, non ho creduto ad una favola. Ho creduto ad una Persona, che con la sua carne ed il suo sangue, ha garantito per me e ho scelto di seguirla. Mi sono fi dato di una persona che mi ha amato a tal punto da sacrificarsi per me e che non mi ha mai deluso. So a chi ho creduto, ho creduto a Colui che ha trionfato sulla morte, per cui posso continuare nel mio impegno e posso vincere il male grazie a Lui. So a chi ho creduto e non rimarrò confuso in Eterno! Accogliamo la bella testimonianza di San Paolo: “Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno” (2 Tim. 4, 6-8).
La battaglia della fede è lasciare agire il Signore nella nostra vita permettendogli di salvarci: Lui è la nostra forza, con Lui possiamo combattere, con Lui possiamo vincere, in Lui possiamo conservare la fede solo se siamo capaci di stare con il nostro dolore, accettarlo, conoscerlo e guarirlo. Quando non siamo in grado di sentire quello che dobbiamo sentire, quando facciamo resistenza ai progetti di Dio o cerchiamo di sfuggire alla vita, allora siamo sconfitti. Se però ci aggrappiamo al dolore con Cristo e ci facciamo appendere alla Sua croce, la nostra sofferenza muore e rinasce la vita immensa e sconfinata. Ecco la morte di cui dobbiamo morire: non dobbiamo fuggire la sofferenza, negarla, fare finta che non esista o al contrario rimanerne paralizzati, schiacciati, ma accettarla, conoscerla e attraverso di lei scoprire, addirittura, lo scopo della nostra esistenza. La sofferenza ci pone di fronte alla nostra nudità, alla nostra essenza, al mistero della vita. E la più profonda conversione avviene sempre quando crediamo di aver toccato il fondo, quando ci sentiamo ormai senza difese, impotenti, quando ci arrendiamo, quando non abbiamo più nulla da perdere: allora capiamo che da soli non possiamo niente! É proprio in quel momento che la potenza di Dio ci solleverà! Dunque, non siamo noi con la nostra intelligenza, con la nostra volontà, con i nostri sforzi a trasformarci, ma è Dio che opera in noi.
Quando sentiremo il vuoto, Dio ci riempirà il cuore. Allora, nel sentire la nostra estrema fragilità e la grande misericordia di Dio, il nostro cuore cambierà, si trasformerà. Sentendo la sofferenza, sperimentando il dolore nella carne e nello spirito, collegandoli alla passione di Gesù, offrendoli a Dio, la nostra vita cambierà in profondità. La sofferenza, allora, non sarà più qualcosa da cui fuggire, ma un luogo da attraversare cercando di capire che cosa Dio vuole da noi, perché le sofferenze vengono per dirci qualcosa e nascondono sempre un tesoro prezioso: la possibilità della conversione del cuore. La invoco per tutti voi, voi invocatela per me, che ho tanto bisogno, particolarmente in questi giorni, di “capire” la Croce, di vivere nella fede quanto ho cercato di scrivervi. Preghiamo, uniti a tutta la sofferenza del mondo. Chiediamo anche a Nino Baglieri di pregare insieme con noi, soprattutto lui che ha saputo trasformare il suo grande dolore in una “croce cristiana” gravida di benedizione, di aiuto e di salvezza per tanti nella nostra Diocesi.
Il Signore Risorto conceda a ciascuno di voi e alle vostre famiglie, la luce della grazia e la forza della speranza, per risorgere con Lui e con Lui cercare, attraversando i patimenti della vita, “le cose di lassù”, le uniche che non deludono e durano per sempre.
Vi benedico, nell’intercessione di San Corrado e della Beata Vergine Maria, scala al Paradiso.