Esistenza e carità: per un'antropologia della condivisione
06-10-2009
Introduzione
Riflettere sul rapporto giustizia e società nella prospettiva dei problemi della bioetica è impegno teorico oggi indispensabile. La bioetica ‘è risaputo-, nasce come problematica dell’applicazione della tecnologia alla vita e in bioetica il rischio principale cui si espone la pratica medica, mediante il procedimento tecnico-diagnostico, è quello della “separazione”, e cioè dell’annullamento della prossimità e della cura: sembra infatti che le possibilità aperte e offerte dalla tecnoscienza, applicata alla bio-medicina, potrebbero diventare un ostacolo alla relazione tra il paziente, l’operatore sanitario e i parenti, trasformandola in relazione puramente strumentale.
Non solo: il progresso tecnologico corre il rischio di occultare la finitudine, innescando una spirale automatica tra “desideri” e loro soddisfazione, in una continua e disperata corsa verso una felicità che consisterebbe nella soddisfazione dei desideri e nella eliminazione del dolore e della morte. Proprio nell’occultamento della finitudine, la hybris (tracotanza) della vita ‘ che deriva quasi da un sentimento di onnipotenza (una ubriacatura – derivante dall’applicazione sempre più allargata della tecnoscienza all’inizio e alla fine della vita – che perverte l’umano dell’uomo) impedirebbe di pensare alla ‘vita buona’ dell’uomo nella forma della presa in carico, della cura e della prossimità verso l’altro, e l’uomo rinuncerebbe all’ineludibile compito etico, di attuazione di un senso, che rimane la fonte dell’appello e dell’ingiunzione affinché la sua libertà decida bene di sé.
Pertanto la bioetica richiede un’etica della responsabilità o della cura responsabile, che si fonda ontologicamente sulla relazionalità nell’esistenza umana.
L’antropologia della condivisione
Si legge in Gn 2,18: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18) Questo significa che da “solo” l’uomo non realizza totalmente la sua essenza. La compie soltanto esistendo “con qualcuno”, e ancor più completamente esistendo “per qualcuno”.
Per cogliere in maniera adeguata tutto il contenuto della ‘comunione’ e della ‘donazione’, quali connotati dell’identità personale dell’uomo, è necessario, da un lato, sviluppare una considerazione della persona umana e della sua vita ne colga le radici profonde del suo essere (desiderio dell’uomo verso l’altro) e, dall’altro lato, occorre portare questa stessa visione antropologica al suo compimento, meglio alla sua più originaria radice, quella ‘teologica’ (ontologia filiale: desiderio dell’uomo verso l’Altro e verso l’altro). Infatti comunione e donazione sono iscritte nell’essere dell’uomo, sono i connotati qualificanti la persona.
Ogni uomo ha consapevolezza di essere generato e di trovarsi in una catena di generazioni: nessuno dona la vita a se stesso. Ognuno sa per altro che la vita è limitata e fragile e che il suo inizio, la sua custodia, il suo sviluppo dipendono dalla responsabilità e dall’amore di tanti altri. Questa consapevolezza si fa più chiara di fronte al concepito non ancora nato, al bambino, al malato, all’anziano, al morente, al più debole e indifeso.
La consapevolezza dell’uomo poi si compie, e giunge alle sue sorgenti, quando per conoscersi e sapersi l’uomo accoglie la rivelazione della vita di Dio, che mistero luminoso capace di svelare il mistero dell’uomo a se stesso: nella ‘relazionalità’, e quindi nel suo essere ‘con’ gli altri e ‘per’ gli altri, l’uomo esprime e vive la sua realtà originaria di ‘immagine’ di Dio Creatore e di Dio Uno e Trino. L’uomo sta in comunione con Dio, meglio Dio – con il suo gesto creativo e redentore – sta in comunione con l’uomo. Questa comunione è segno e frutto di una donazione, testimonianza dell’amore donante di Dio. Più precisamente si tratta di un amore donante che conduce Dio a fare dell’uomo un ‘partner’ di quel dialogo di comunione e di donazione che costituisce la vita intima di Dio Uno e Trino, di Dio Padre, Figlio e Spirito, di un Dio-dialogo, vivente e vitale, capace di prendersi cura eternamente della sua creatura.
Possiamo a questo punto parlare di un’antropologia dell’amore, cioè una visione dell’uomo nella quale l’amore definisce e identifica la persona umana. Afferma Giovanni Paolo II in Redemptor hominis 10: «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente».
Di conseguenza, più precisamente, l’amore, prima che un dato etico, è un dato ontologico, strutturale della persona, che riesce bene a fare sintesi del significato di alterità (differenza) e di reciprocità (complementarietà), base del riconoscimento dell’altro come persona, senza contrastarne la concezione come ente in sé. Arriviamo, così, alla definizione di persona di Mounier che ha corretto lo slogan cartesiano con l’espressione: «amo ergo sum»: l’uomo come un essere per amare.
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