Il 26 febbraio a Noto i preti della diocesi hanno partecipato ad un interessante aggiornamento sul dialogo ecumenico ed il discernimento che dobbiamo tenere verso l’islam, è stato don Ignazio La China a relazionare in qualità di Direttore dell’Ufficio dicoesano per l’ecumenismo e il dialogo. Abbiamo pensato di rendere partecipe tutto il popolo di Dio pubblicando in allegato a questa notizia la corposa relazione. Parlando tutti e tanto di dialogo, dobbiamo osservare come si può correre il rischio di scambiare per dialogo un rapporto semplicistico e acritico con il mondo, dettato da un qualunquistico “vogliamoci bene”.
In realtà il problema del dialogo manifesta un problema ancor più radicale: è il problema di quale consapevolezza ha la Chiesa della sua identità e del modo in cui la Chiesa vuole mettere se stessa in rapporto con il mondo.
Gli anni del post concilio sono stati gli anni poi in cui il Magistero si è impegnato nello sforzo di elaborare una metodologia del dialogo ecumenico e interreligioso che rispetti da un lato l’impegno alla testimonianza della propria fede ma, nello stesso tempo, implichi un’apertura verso quella degli altri, senza per questo perdere la propria identità e che sfoci invece nel mutuo confronto e arricchimento, specificando che non è una rinuncia alla missione della Chiesa.
Basti un esempio, preso dallo stravolgimento della famosa frase di Giovanni XXIII ridotta ad uno slogan sbandierato in tutte le occasioni: la frase corretta è “mettiamo in evidenza anzitutto ciò che ci è comune, prima di notare ciò che ci divide”. Mentre oggi la “vulgata” è “guardiamo a quello che ci unisce e non a quello che ci divide”. Ma come si vede il senso ne esce completamente stravolto.
Papa Giovanni non dice che bisogna ignorare, tralasciare ciò che ci divide per notare solo ciò che ci unisce: dalla espressione vera si capisce invece come vadano annotate entrambe le cose: ciò che unisce e ciò che divide. L’invito invece è una indicazione metodologica sul dialogo che, evidenziando prima le cose comuni predispone poi ad accogliere anche quelle che ci diversificano. E’ una finezza psicologica se si vuole, ma che non incide su un dialogo che nella verità deve essere capace di notare sia ciò che unisce che ciò che divide perché è un dialogo che vuole cogliere l’intima identità di ogni interlocutore.
La frase storpiata fa del papa l’ideatore del “politicamente corretto” in cui le cose che potrebbero dispiacere non si devono notare: ma a lungo andare non si rischia di costruire così un rapporto falso?
L’equivoco cresce ancora di più quando, per valorizzare solo ciò che unisce, si teorizza poi un dialogo che per essere tale deve porre tra parentesi l’identità cristiana e cattolica per incontrare gli altri su un piano di presunta correttezza e di parità formale: ma così facendo si arriva, sottolineando solo gli aspetti in comune, al paradosso di un incontro tra due che già si conoscono e non fra due che si vogliono avventurare nel mistero della diversità l’uno dell’altro. A ben pensarci, questo equivoco è alla base di quello stallo del dialogo che molti denunciano oggi: infatti in quaranta anni questo lavoro di sottolineare le convergenze è stato fatto e ora ci si chiede: “dal momento che ormai ci conosciamo, come andare avanti?” Il problema è che questa affermazione è falsa: perché conosciamo solo le cose comuni, perché ci si è limitati ad un confronto fenomenologico superficiale.
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