Il nuovo libro del nostro Vescovo su l’abate calabrese. Fede cattolica nella Trinità e pensiero teologico della storia in G. Da Fiore

S.E. Mons A. Staglianò ha pubblicato per l’Editrice Vaticana un nuovo libro che costituisce il nono volume della collana “Itineraria” curata dalla Pontificia Accademia Teologica, prende in esame il pensiero di Gioacchino Da Fiore, abate calabrese, nonché uno dei più autorevoli filosofi del Medioevo. In particolare l’intento del volume è di suggerire un’interpretazione che avvalori gli insegnamenti di Gioacchino, apportando maggiore chiarezza nella sua dottrina trinitaria e cristologia per propiziarne la piena riabilitazione ecclesiale. Il lavoro dunque risulta essere un ulteriore impulso per gli studiosi di teologia e gli studenti delle facoltà teologiche, per la conoscenza e l’approfondimento di una figura che ancora oggi resta affascinante ed attuale.
 
PREFAZIONE del Card. GIANFRANCO RAVASI
 
Per giustificare onestamente e correttamente questa prefazione, scritta da un “inesperto” che non è in grado di perlustrare il piccolo mare testuale degli scritti autentici e apocrifi gioachimiti e il vasto oceano delle bibliografie esegetiche, vorrei ricorrere a un’immagine che mi è più familiare. Nella straordinaria catacomba romana di via Dino Compagni, suggestiva testimonianza di un’ermeneutica cristiana dei simboli e dei motivi iconografici classici pagani, si hanno due curiosi affreschi di “scene d’ingresso”. In quelle raffigurazioni le duplici ante dei portali vengono spalancate da un personaggio, e al di là di esse si intravede un mirabile idillio fatto di una vegetazione bucolica, evocazione di quel paradiso che attende il giusto là sepolto (non si dimentichi che “paradiso” è un termine di matrice alto-iranica che originariamente designava un giardino recintato).
Questa illustrazione, che forse si avvale della metafora della Thyra písteos, la “porta della fede” – presente negli Atti degli Apostoli (14,27) e ripresa per l’Anno della fede del 2013 da Benedetto XVI – è ora da me usata allegoricamente come segno della mia funzione in questa prefazione. Starò, infatti, sulla soglia aprendo un orizzonte di ricerca sbocciato, cresciuto e fiorito in anni di studio condotti da mons. Antonio Staglianò. Dal 2009 egli è vescovo di Noto in Sicilia, ma la sua origine calabrese è legata alle terre che videro la nascita, la vocazione, la vicenda umana e spirituale del protagonista di quell’orizzonte, Gioacchino da Fiore, una delle figure più emozionanti, coinvolgenti e per molti versi sconcertanti del Medioevo.
Intenzionalmente ho usato l’aggettivo forte “sconcertante” per questo personaggio, perché l’impegno principale che mons. Staglianò si è assunto non è solo quello di smentirlo, ma persino di capovolgerlo nel suo contrario, presentandoci un Gioacchino rassicurante nell’ortodossia della sua fede. Si vorrebbe, dunque, dissolvere la nebula delle decifrazioni sospette del pensiero esegetico e teologico dell’Abate calabrese, abbattere certi stereotipi che lo accompagnano da secoli, spezzare o almeno dipanare «il groviglio delle interpretazioni… che hanno compromesso l’utilizzazione sistematica della sua riflessione, delle prospettive fondamentali della sua dottrina, della sua ermeneutica della Scrittura, della sua versione utopica della storia».
Anzi, il proposito del vescovo di Noto è quello di avvolgere di nuovo in modo ufficiale il volto di Gioacchino nell’aureola della santità che, a livello popolare, gli fu sempre assegnata, confermando quel culto che spontaneamente gli fu tributato. Da un lato, infatti, mons. Staglianò, nato a Isola Capo Rizzuto, a lungo vissuto in quelle terre calabresi, è uno dei pochi che senza difficoltà riuscirebbe a raggiungere quel Celico cosentino ove l’Abate vide la luce oppure quel S. Martino a Canale ove spirò e S. Giovanni in Fiore che gli dette il patronimico spirituale e ne accolse, prima, l’esperienza monastica e, poi, le spoglie. D’altro lato, però, egli è anche uno dei pochi che possono entrare nella complessità fluida del pensiero gioachimita per sceverarne l’autenticità rispetto alle sovrastrutture e alle superfetazioni apocrife, ed è anche uno dei rari studiosi capaci di districarsi all’interno di una Wirkungsgeschichte lussureggiante e spesso creativa.
Non per nulla mons. Staglianò non esita ad affrontare con grande acribia e a sciogliere quei nodi che, anche a chi è come me solo sulla soglia di quell’orizzonte variegato, sono spontaneamente associati alla figura del grande calabrese, dall’intreccio fra Trinità e storia, al sospetto “triteismo” teologico da cui discenderebbe il celebre “triteismo” storico della triplice èra. Solo chi ha ben stretto il filo di Arianna del pensiero e degli scritti di questo mistico, teologo, esegeta, profeta, fondatore e riformatore religioso riesce, infatti, a percorrere quella sorta di “giardino paradisiaco” spirituale da lui piantato, del quale appunto noi ora dischiudiamo le porte. Tale e tanta è la passione che anima il vescovo Staglianò per l’Abate, che a lui ha persino dedicato il suo stemma episcopale, facendolo diventare una vera e propria insegna simbolica gioachimita. Anzi, in finale la sua analisi critica trascolora in poesia, creando un epilogo che è anche una specie di ideale testamento-appello a «tornare ai suoi tre cerchi», ritrovando «le radici nei suoi colori», proiettandosi «nel rosso del futuro che già inizia».
A chiudere le porte di questo panorama letterario e spirituale sarà, invece, un teologo “esperto” e competente come è Piero Coda: sarà lui – dopo aver percorso l’itinerario gioachimita proposto da mons. Staglianò – a porre un suggello che sia quasi il bilancio di una vera avventura dell’anima e della mente. È, quindi, a lui che lascio il compito più alto e delicato, quello di elaborare la postfazione che riassume, sulla scia dell’esegesi dell’autore del saggio, una dottrina trinitaria e una visione storico-salvifica, sospesa tra metafora e riflessione, tra fosforescenza simbolica e lucida speculazione. Davanti a me rimangono sullo sfondo abbracciate tra loro la figura del Maestro e quella del discepolo. Sì, perché Antonio Staglianò – che pure ricordo sempre come mio alunno di forte tempra intellettuale e di originale capacità ermeneutica – è soprattutto appassionato discepolo di due Maestri da lui tanto amati, Gioacchino da Fiore e Antonio Rosmini, due outsider forse della teologia, ma di intensa fedeltà e ortodossia personale.
Tuttavia, alla fine è il Maestro Gioacchino a rimanere negli occhi e nella mente del lettore, certamente per il nuovo ritratto teologico disegnato in queste pagine. Anche per me le antiche letture di testi ramificati e ardui come l’Expositio o l’Enchiridion in Apocalypsim o come quel suo singolare e geniale Psalterium decem chordarum o ancora quella Concordia che incrociava le Scritture del Primo e del Nuovo Testamento, acquistano ora un diverso sapore. Ma per tutti egli rimarrà sempre vivo nella memoria soprattutto attraverso la citatissima e solenne celebrazione che il san Bonaventura dantesco gli aveva dedicato contemplandolo nel cielo del sole paradisiaco: «…lucemi da lato / il calavrese abate Giovacchino, / di spirito profetico dotato» (Paradiso XII, 139-141).