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Modica. Quattro giornate di iniziative, dall’8 all’11 gennaio, sulla figura del Sac. G. Rizza a 30 anni dalla sua scomparsa

 Nella memoria collettiva modicana c’è una figura che certamente non è stata consegnata all’oblio. Si tratta del sacerdote Mons. Giuseppe Rizza, morto nell’epifania del 1984 e che a 30 anni di distanza dalla sua scomparsa continua ad essere oggetto di attenzione da parte della città di Modica e della comunità ecclesiale del Sacro Cuore. Ne sono testimonianza tutti gli eventi in programma dall’8 all’11 gennaio nella fascia orario che va dalle ore 18,00 alle ore 20,30, organizzati dall’associazione cristiana per la famiglia che porta proprio il nome “Sac. Giuseppe Rizza”, dal Consiglio pastorale della chiesa del Sacro Cuore, in collaborazione con l’ Ufficio Cultura della Diocesi di Noto e il Caffè Letterario “S. Quasimodo”, e con il patrocinio del Comune di Modica.
 
Le iniziative rievocative si snoderanno in quattro giornate. Si comincerà l’8 gennaio con la “giornata della spiritualità”, che vedrà l’apertura ufficiale degli eventi con una concelebrazione presieduta dal vescovo emerito di Noto Mons. Giuseppe Malandrino il quale ebbe come prefetto il sacerdote Rizza, e si proseguirà il 9 gennaio con la “giornata della testimonianza”, che prevede una celebrazione eucaristica con gli interventi di persone che lo hanno conosciuto da vicino, apprezzandone lo stile e la spiritualità.
 
Un altro momento importante nel quale sarà focalizzata l’eredità morale, spirituale e religiosa del sacerdote Rizza sarà la “giornata della riflessione teologica”, dedicata alla presentazione della ristampa del libro a lui dedicato e dal titolo “Il Padre, l’amico e il fratello” , pubblicato dal sottoscritto nel 1986, ove si trovano delineati gli aspetti più rilevanti della sua figura e del suo impegno sacerdotale e civile. All’incontro interverranno don Ignazio Petriglieri, vicario per la cultura della Diocesi di Noto, il sindaco di Modica Ignazio Abbate, l’attore Giorgio Sparacino che mosse i primi suoi passi artistici proprio sul palco del salone parrocchiale, e il musicista Corrado Cannizzaro che eseguirà brani musicali con la fisarmonica, strumento che suonava lo stesso Giuseppe Rizza.
 
L’evento culminante sarà quello dell’11 gennaio, dedicato alla “giornata della famiglia” con un convegno sul tema “Essere genitori oggi: missione impossibile?”, al quale interverranno don Stefano Modica, Direttore dell’Ufficio cultura della Diocesi di Noto , il presidente dell’associazione cristiana per la famiglia “sac. G. Rizza,prof. Giuseppe Giannì, e il sacerdote Armando Matteo, docente di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma.
Di umili origini, Giuseppe Rizza nacque a Modica il 28 ottobre 1922 in una famiglia molto religiosa e fu il dodicesimo dei tredici figli venuti alla vita. Con l’appoggio incondizionato della madre, dopo la scuola elementare continuò gli studi nonostante il parere contrario del padre e di alcuni fratelli che volevano si dedicasse al lavoro dei campi. Dimostrò sempre volontà e intelligenza, che gli permisero di proseguire nello studio in maniera brillante e di superare tutte quelle difficoltà che il vivere in campagna comportava, come il raggiungere ogni giorno a piedi prima la scuola elementare ed in seguito la casa del professore Parroco Palazzolo, sita in Modica Alta.
Nel 1934 Giuseppe Rizza entrò in seminario, dove si fece apprezzare per equilibrio, bontà e rettitudine tanto da essere quasi sempre preposto dai superiori come “prefetto” con compiti di responsabilità. Qui curò, come risulta dai suoi vari appunti dell’epoca, in maniera precipua la sua vita spirituale, dedicandosi altresì con impegno e assennatezza allo studio.
 
Il 29 giugno del 1947 fu consacrato sacerdote da Sua Eccellenza Mons. Angelo Calabretta e fu subito assegnato al Piccolo Seminario di Modica, nella qualità di Direttore: una non piccola responsabilità, se si pensa che allora Modica era un vivaio di vocazioni e il Piccolo Seminario era il primo vaglio dei candidati al sacerdozio, la prima esperienza di vita seminaristica. Furono sette anni di dedizione esemplare, che diedero alla Diocesi netina frutti consolanti.
Nel 1954 venne affidata a Don Giuseppe Rizza la chiesa del S. Cuore. Era una piccola parrocchia di campagna che accoglieva villeggianti del centro modicano e per la cui erezione nel 1931 si costituì un piccolo comitato formato dalla famiglia del dott. Giorgio Galfo, dalla famiglia Floridia e dalle famiglie Galfo e Trombadore, Odierna e Micieli. Il comitato operò una sottoscrizione per raccogliere i fondi necessari per l’erezione della parrocchia, sottoscrizione che diede il risultato £. 29.378.
 
Nel dicembre del 1929 venne a Modica l’ingegnere del Vaticano, Mons. Chiappella, per occuparsi della costruzione della casa canonica e di una piccola chiesa; nel giugno del 1930, poi, il Vescovo Vizzini venne a Modica e, convocato l’antico comitato, diede la lieta notizia che di lì a poco si sarebbero potuti iniziare i lavori. Intanto bisognava procedere subito alla compera del suolo; ecco allora il comitato mettersi all’opera: la sera del 23 giugno, alle ore 21, Padre Celestino poteva fare il compromesso per £. 4000 dinanzi al notaio avv. Ignazio Stella. Così il 4 luglio 1930, Sua Eccellenza Mons. Vizzini, vescovo di Noto, poteva benedire la prima pietra alla presenza di tutte le autorità civili e militari.
Il 10 Novembre del 1931 la Chiesa fu completata e il 15 dello stesso mese veniva benedetta e vi si celebrava la prima S. Messa. In questa chiesa don Giuseppe Rizza non mancò, nella buona e cattiva salute, di profondere per 30 anni tutte le sue energie, vedendone crescere in maniera esponenziale il numero dei residenti che dal centro storico si spostavano verso il quartiere Sorda.
 
Dunque nella prima metà del ‘900 il sacerdote Rizza diventa testimone dei profondi mutamenti demografici, sociali, culturali, urbanistici del quartiere Sorda di Modica, e dal 1954 sino alla fine degli anni ’80 dovette affrontare non pochi problemi pastorali per raccogliere attorno al campanile giovani, bambini e famiglie che si trasferivano dagli altri quartieri della città. Un suo cruccio fu proprio la ristrettezza delle strutture parrocchiali e l’impossibilità di accogliere nella piccola chiesa il consistente esodo dalla zona alta e bassa della città di Modica.
 
Tutte le testimonianze, ecclesiali e non, raccolte nel volume “Il Padre, l’amico e il fratello” convergono in maniera singolare nel delineare una figura di sacerdote che mai fu sfiorato, specie nel periodo della contestazione del ’68 e agli inizi degli anni ’70 quando parecchi sacerdoti della diocesi netina lasciarono il sacerdozio, dalla tentazione della disobbedienza e dell’abbandono dell’abito sacerdotale, né offri il fianco al vento delle ideologie e delle mode del tempo che tendevano ad operare un’ emancipazione dalla fede; al contrario rimase come terra ferma, continuando ad essere un sacerdote fedele fondato sulla roccia della fede. Del resto, la sua vita seminaristica era stata sempre caratterizzata dal desiderio di diventare sacerdote e i suoi scritti giovanili testimoniano con chiarezza come ci fosse in lui l’ardore di diventare sacerdote santo e il tormento interiore di riuscire nella sua missione piacendo a Dio in tutto.
Nel pieno della sua attività pastorale il sacerdote Rizza non fu risparmiato da critiche per il fatto che non si schierò a fianco di alcuni teologi e preti innovatori sulla scia del Concilio Vaticano II. In realtà egli non fu per nulla un prete anticonciliare, anzi seguiva il Concilio soprattutto nelle sue proiezioni pastorali che cercavano di mettere al centro la nuova evangelizzazione delle famiglie, tant’è che la sua parrocchia divenne un primo esempio di aggregazione di famiglie cristiane.
 
Lontano da forme di ideologizzazione della fede, era abituato a vivere nella preghiera e nel nascondimento, non amava atteggiamenti da prima donna e la caratteristica dei suoi insegnamenti era sempre “la semplicità”, una semplicità che si articolava entro dimensioni espositive non di certo superficiali o prive di supporti di riflessione, ma, anzi, ben coordinate e saldate nell’ armonia di un discorso fedele ai dettami biblici e alle loro relative implicazioni esistenziali, radicato nella Tradizione e attento alle direttive della Chiesa magisteriale. Era, in sostanza, una semplicità che nasceva in lui dalla preoccupazione, a volte anche eccessiva, di mettere i suoi parrocchiani, i membri più vicini alla comunità, i catechisti, le famiglie, i più umili, gli artigiani e i lavoratori nelle condizioni di poter capire e accogliere il Kerigma cristiano con estrema facilità.
 
Il suo linguaggio era quindi volutamente scarno perché mirava all’essenziale e alla enunciazione dei concetti primari della fede cristiana. Sotto questo aspetto i suoi insegnamenti riuscivano a calarsi nella realtà sociale perché scaturivano da quella sua paternità spirituale umile, semplice e sincera, riuscendo a determinare uno scavo interiore nel cuore dei fedeli.
 
Di questo sacerdote sono rimaste molte tracce di testimonianze che possono sintetizzarsi in alcune frasi: “Uomo di preghiera e di ricca vita interiore”(Padre Francesco Vinci); “Testimone di vita sacerdotale”(Suore benedettine di Sortino); “Parroco fondato su solide basi”(Padre Callisto, cappuccino).E ancora, le parole di alcuni cittadini della zona Sorda: “Padre Rizza è stato il sacerdote della mia vita”; “Ha costruito al Signore un tempio vivo, spirituale”; “Era un sacerdote completo: dolce, umano, di una linea pastorale unica”; “Ci ha guidati a saper leggere la nostra vita in chiave cristiana”.
 
Molte anche le testimonianze di altri sacerdoti, religiose e di coppie:“Formatore dei futuri sacerdoti, pastore operoso”(Padre Francesco Viola); “Il fratello di tutti”(Mons. Matteo Gambuzza”); “Sacerdote di profonda vita spirituale e di eccezionale equilibrio”( Giorgio ed Enza Collemi); “La sua serena parola di fiducia e di forza(avv. Elio Ripoli, Roma); “Ci metteva in rapporto di amicizia con Dio”(Salvatore e Maria Bono); “Servo fedele, amava il sacerdozio”(Madre Rosa Graziano, vicaria generale della Congregazione Figlie del Divino zelo- Roma).
 
Ecco, in queste testimonianze si trova la chiave di lettura del sacerdote Rizza, un prete della gente e per la gente, un parroco del popolo e per il popolo, un sacerdote che ha conquistato il cuore dei più semplici, degli anziani, dei bambini, delle famiglie, dei giovani, degli operai e che nella sua vita ebbe solo una aspirazione: vivere pienamente il sacerdozio cercando di fare di se stesso un “alter Christus”.
 

POZZALLO. 110° ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI GIORGIO LA PIRA. Dal 7 al 9 GENNAIO 2014: “L’attesa della povera gente“

La Diocesi di Noto, il Vicariato di Pozzallo, il Comune di Pozzallo e di Firenze, l’Associazione per la gioventù Giorgio La Pira, il servizio di Pastorale giovanile vocazionale diocesano insieme ad altri organizzano dal 7 al 9 Gennaio prossimo il 110° anniversario della nascita di Giorgio La Pira che aprirà i battenti il 7 gennaio con una concelebrazione eucaristica presieduta da S.E. Mons. Armando Dini, Arcivescovo Emerito di Campobasso e Bojano. A conclusione della celebrazione eucaristica verrà presentato il progetto “Lampada della pace in Terra Santa”. A seguire vi sarà la consegna e l’accensione della “Lampada della pace in Terra Santa” che sarà posta sul fonte battesimale dove è stato è stato battezzato Giorgio La Pira.
l’8 Gennaio alle ore 17.00 dalla Chiesa San Giovanni Battista al Porto di Pozzallo si terrà la marcia per la fratellanza e l’amicizia dei popoli.
 
Il 9 Gennaio alle ore 10,00 presso lo spazio cultura “Meno Assenza” si terrà un incontro per gli studenti dal tema: “La crisi economica in atto: prospettive e soluzioni“; introdurrà il Prof. Carmelo Nolano dell’Associazione per la gioventù Giorgio La Pira, i relatori che interverranno sono: S.E. Mons. Armando Dini, il Prof. Piero Roggi, Università di Firenze, la Prof.ssa Monika Poettinger, Università Bocconi di Milano, mentre Interveranno: la Dott.ssa Cristina Giachi, l’ Assessore all’educazione del Comune di Firenze, Don Lorenzo Paolino, Responsabile per la Toscana Caritas di Gerusalemme.
 
Nel Pomeriggio del 9 Gennaio alle ore 18.00 presso lo Spazio Cultura “Meno Assenza“, si terra un Convegno dal tema: “L’attesa della povera gente“, introdurrà i lavori Don Vincenzo Rosana, Parroco della Chiesa Madre Madonna del Rosario, mentre a presiedere il Convegno sarà il Dott. Michele Palazzolo, Giudice presso il tribunale di Ragusa.

Relazioni:
– La spiritualità di Giorgio La Pira
S.E. Mons. Armando Dini, Arcivescovo Emerito di Campobasso e Bojano
 
– L’economia per Giorgio La Pira
Prof. Piero Roggi, Università di Firenze
 
– La povera gente e le sue attese per l’economista Amartya Sen
Prof.ssa Monika Poettinger, Università Bocconi di Milano
 
Interventi:
Luigi Ammatuna, Sindaco di Pozzallo
 
Conclusioni:
S.E. Mons. Antonio Staglianò, Vescovo di Noto

“La pittura di Orazio Spadaro nel Novecento modicano”, una mostra-convegno. La Fondazione Grimaldi celebra il prete-artista modicano

“La pittura di Orazio Spadaro nel Novecento modicano” è il titolo di un convegno e di una mostra, organizzate dalla Fondazione Giovan Pietro Grimaldi con il patrocinio del Comune di Modica, della Diocesi di Noto e del Rotary Club, per celebrare la figura del prete artista (1880-1959) autore di pregevolissime tele di soggetto sacro e profano che oggi abbelliscono chiese e palazzi di Sicilia.
 
Il convegno, previsto per sabato 21 dicembre alle ore 16,30 nell’aula consiliare del Comune, dopo i saluti del sindaco Ignazio Abbate, del presidente del Rotary Club Roberto Falla e del presidente della Fondazione Grimaldi Giuseppe Barone, vedrà gli interventi degli storici dell’arte Gino Carbonaro, Paolo Nifosì e Andrea Guastella e dell’archivista della Diocesi di Noto Salvatore Maiore. Coordinerà i lavori la giornalista Marcella Burderi. Le relazioni affronteranno i nodi storico-artistici, ponendo le basi per un primo censimento e catalogazione delle opere del canonico. A seguire, a Palazzo Grimaldi sarà inaugurata (ore 19,30) una mostra con oltre cinquanta opere dello Spadaro, tra riproduzioni e originali provenienti da collezioni private.
 
La mostra, aperta fino al 19 gennaio, osserverà i seguenti orari: dal lunedì al sabato, ore 9.00-13.00 e ore 16.00-20.00 (chiusa il 25, 26 dicembre e 1° gennaio).
 
Orazio Spadaro, terzo di nove figli, iniziò a dipingere da autodidatta. Dopo gli studi teologici nel seminario di Noto e l’ordinazione a sacerdote nel 1906, perfezionò la propria arte a Roma, Firenze, Venezia, Milano, Padova e Bologna, studiando le opere dei grandi maestri della pittura italiana del secondo Ottocento. Fu allievo di alcuni tra i maggiori artisti dell’epoca, come Aristide Sartorio, Francesco Paolo Michetti, Antonio Mancini, Giovanni Segantini, Domenico Morelli e altri. Dipinse opere di soggetto sacro, ma anche ritratti, nature morte e scene agresti ispirate alla campagna modicana. Nel 1924, su invito della nobildonna Grazietta Castro Grimaldi, sua protettrice e mecenate, il prete-artista si trasferì nella chiesetta rurale di Pozzo Cassero dove poté dedicarsi con maggiore impegno ai suoi quadri, immerso nel verde e nella tranquillità della campagna. Numerosi i giovani che uscirono dalle sua “bottega”: i nipoti Beppe, Enzo e Valente Assenza, Tanino Napolino e altri. Morì a Modica nel 1959.
Maggiori dettagli sull’iniziativa saranno forniti in occasione della conferenza stampa di presentazione dell’evento che sarà convocata nei prossimi giorni.
 
 

Video messaggio di Natale del Vescovo Staglianò alla Diocesi

 
 
Dov’è tuo fratello?
Usciamo dalle nostre abitudini per annunciare sulle strade degli uomini e delle donne del nostro tempo la gioia del Vangelo
 
Carissimi figli amati della Chiesa di Noto,
fratelli e sorelle in Cristo Signore,
padri e madri che abitate il nostro territorio diocesano, col desiderio di testimoniare la fede e di annunciare il Vangelo che salva e libera le nostre esistenze dai falsi idoli della odierna società del consumo, donando la vera gioia del sentirci felicemente umani, secondo il progetto di Dio su di noi. Dio viene, Dio avviene in Gesù, diventa nostro compagno di strada. L’Avvento è attesa e preparazione, perché – venendo Dio nelle nostre vite, nelle nostre case, nei nostri affetti, nelle nostre solitudini e afflizioni, nei nostri desideri di bene, di giustizia e di amore – noi possiamo accoglierLo, riceverLo con dignità e farci istruire da Lui sull’essenziale che ci riguarda: l’amore che vorremmo ricevere in abbondanza e donare senza misura.
 
“Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per Maria i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2,6-7).
 
Il viaggio della vita è faticoso, lo so. Molto più faticoso, a volte, di quanto le nostre spalle possano sopportare. Smarriti nel cuore, abbiamo l’impressione di restare sempre al punto di partenza, incastrati in una identità che non è quella che vogliamo, annaspando alla ricerca di risposte immediate all’incessante infelicità che incombe su di noi e che sembra perseguitarci, dimenticando la nostra vocazione ad essere uomini dell’attesa capaci di fede nel grande Re che nasce piccolo bambino e che pur giacendo ancora nel presepe regna già in cielo e sulla terra. Smarriamo così la nostra vocazione ad essere capaci di obbedienza attenta alla parola di Dio, consapevoli che la nostra fedeltà permetterà a chi verrà dopo di noi di ricevere l’eredità di salvezza dalla morte e dal peccato donataci da Gesù, “via santa attraverso la quale ritorneranno i riscattati dal Signore ed entreranno in Sion con grida di gioia”.(Is 35,10)
In questa ottica, ognuno di noi è chiamato ad intraprendere il viaggio verso Betlemme, qualunque cosa comporti, alla ricerca di un angolo di Amore nella mangiatoia della nostra storia. Proprio in quell’angolo, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, possono trovare “riposo”, attraverso l’esperienza di spazi concreti di solidarietà, accoglienza e comunione.
Capita a tutti, infatti, di attraversare momenti di estrema difficoltà, di profondo disagio, di radicale debolezza. Sono i momenti in cui il disorientamento e lo scoraggiamento s’impossessano di noi, a tal punto da convincerci che esistere sia insopportabile. Allora, la morte si presenta come l’attesa e il desiderio più naturale di una vita nella quale avvertiamo di essere privati dei diritti più elementari di giustizia umana e di equità sociale. Così, talvolta, taluni, non avendo nulla da perdere – se non la miseria e l’abbruttimento che si vive quotidianamente, in preda allo scoramento-, tentano il tutto per tutto, anche a costo dell’annientamento della vita.
Ora, è vero, tutti hanno diritto alla felicità e alla serenità, a quegli attimi di normale esistenza, nei quali poter guardare i propri figli giocare e sorridere, senza temere di non poter dar loro sostentamento, di perdere la casa perché non abbiamo pagato il mutuo, di morire perché ci siamo irrimediabilmente ammalati, di rimanere disoccupati dopo lunghi anni di studio, di dover scappare dalla nostra terra dove c’è soltanto fame e guerra alla ricerca di un paese che ci accolga e ci consideri finalmente “figli di Dio” e non bestie da macello in un mercato asettico e omologante.
Nel tempo di Avvento gustiamo di più l’esperienza di un Dio che si fa uno-di-noi e, per questa Via, (è Gesù, la Via della Verità che conduce alla Vita) chiede a noi d’essere immedesimati nelle vicende di tutti, facendole effettivamente nostre. Siamo dunque “Noi” – per questa immedesimazione natalizia – che, assaliti da un dolore indicibile, c’imbarchiamo allo sbaraglio sulle zattere del salto nel buio diretti verso mete dove ancora sia possibile respirare e sperare. Tanti si perdono per strada abbagliati dalle effimere luci d’ingannevoli felicità, numerosi sono inghiottiti dall’oscurità delle acque profonde della depressione, della disperazione, incapaci di credere ancora nel miracolo della vita. Altri intraprendono rassegnati viaggi senza ritorno, alla fine dei quali nessuno ricorderà più il loro nome, chi sono stati, cosa cercavano, quale è stata l’ultima parola che hanno pronunciato, così come in vita, travolti inevitabilmente anche nella morte, dall’oscurità dell’indifferenza e dell’isolamento.
Sì, fratelli e sorelle carissime, lo dobbiamo ammettere, aprendo gli occhi del cuore: è facile diventare preda dello sconforto quando prendiamo soltanto batoste, quando bussiamo alle porte dell’amicizia in cerca di riparo, di una parola di conforto, di un semplice gesto di affetto, di comprensione e troviamo soltanto il silenzio assordante del vuoto di sentimenti. E’ quasi istintivo entrare nello scoramento quando la politica, le istituzioni non ci guardano per quelli che siamo – risorse umane per la costruzione di un futuro migliore e giusto-, ma piuttosto come dei ”problemi da risolvere”, “dei numeri da far quadrare” calpestando la bellezza ineffabile dell’universo e delle creature di Dio alle quali deve essere garantito il diritto a una vita qualificante e sostenibile. In questo triste scenario, ormai all’ordine di ogni giorno, mi chiedo quanti di noi siano veramente pronti ad accogliere Dio! O lo lasciamo nell’angolo di un vago sentimentalismo senza impegno, senza cuore e senza ospitalità sincera? Mi domando, ancora quanti abbiano tempo e spazio per Lui che si manifesta continuamente ai nostri occhi ed ha il volto dei disagiati, degli sfollati, dei drogati, dei poveri, degli ammalati, degli immigrati, dei profughi della terra!
Restare emozionati nell’addio ai tanti che non ci sono più o accennare un tiepido dispiacere per quanti vivano condizioni di disagio, non basterà a lavarci la coscienza dal sangue degli innocenti morti o sofferenti a causa della nostra indifferenza, della superficialità delle istituzioni, della sordità della politica. Ancora è forte (e mai si sopirà) il loro grido di dolore, le loro urla di paura, le loro richieste di aiuto, il loro terrore andando incontro alla morte fisica e morale. Eh, sì, fisica e morale, perché si può morire in tanti modi, si può esistere ed essere morti dentro, si può respirare, ma affogare nella disperazione. Ed è proprio in questi casi che emergono imbarazzanti le incongruenze tra il nostro professarci, a parole, cristiani e il nostro agire nel quotidiano, talvolta “come lupi”. Papa Francesco lo ha proclamato, con grande semplicità (come solo Lui sa fare) e con altrettanta chiarezza (per chi ha orecchi per intendere). Lo fa ogni giorno con la testimonianza dei suoi gesti di vicinanza e di amore per i più poveri e i più afflitti. Lo ha anche fatto a Lampedusa. Sarebbe più giusto soffermarsi, allora, a pensare che si può uccidere il fratello in diversi modi soprattutto quando siamo incapaci di abbandonare i recinti delle nostre sicurezze, i calcoli cinici dei nostri egoismi, le lusinghe dei nostri patrimoni economici, la superbia delle nostre conquiste, per andare incontro ai nostri fratelli che come “Gesù bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia” restano indifesi, al freddo, al gelo, avviliti dalla miseria fisica e morale, sfiancati dalle nefandezze di un quotidiano che li vuole eternamente sconfitti. La parola, la luce, racchiusa in quel bambino, viene di notte nella povertà della grotta di Betlemme.
Gesù nasce povero a Betlemme per indicarci la ricchezza della fede come unica strada che generi speranza, confermando che si può cambiare vita solo se impariamo a essere più sobri, più solidali, più fraterni. Dobbiamo convincerci tutti (il vostro Vescovo per primo) che le vere novità sono possibili solo con sentimenti profondi, capaci di veri gesti solidali di amicizia e di fraternità, mediante esperienze non superficiali, avendo uno sguardo nuovo sulle persone che ci stanno accanto, per cogliere in loro qualcosa di diverso e di bello, alla fine – per noi cristiani che viviamo l’Avvento-, per riconoscere in loro il volto stesso di Cristo che viene. Dunque, come stiamo ripetendo da qualche tempo: non più solo sentinelle della carità, ma anche esploratori della misericordia. Sarà necessario guardare le cose con la luce di un sorriso, con la tensione di una fiducia, che sa vedere anche nel “brutto del presepe” qualcosa di bello non avvertito prima: si scorge così la Perla della vita tra le lacrime della storia, contemplando la presenza di Gesù in mezzo a noi anche quando arriva la notte. L’amore (lo sapete voi più di me), diventa grande e vero soltanto quando supera l’emozione, quando costa, quando diventa sacrificio, cioè rende sacro ciò che ama. L’Amore diventa grande e vero soltanto quando si traduce in comportamenti di amore senza condizioni, nella consapevolezza che le cose che ci accadono non siano mai fini a se stesse, o senza un senso: ogni incontro, ogni piccolo evento racchiude in sé un significato che ci riguarda intimamente. Perciò, la comprensione di se stessi nasce dalla disponibilità ad accogliere l’Evento, dalla capacità in qualsiasi momento di cambiare direzione, lasciare il vecchio sentiero per andare a Betlemme, guidati da una stella, convinti, non solo a parole, che Gesù sia la ragione per cui vivere e che il Natale sia l’attimo eterno di Amore di Dio verso il suo popolo, il tempo vero che cambia a fondo tutte le cose.
 
“Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere»” (Lc 2,15)
 
Andare a Betlemme in quest’ottica diventa l’indicazione per l’unico cammino credibile. E’ il cammino di chi sa dove vuole andare, di chi ha una meta precisa, di chi ha scelto Gesù ed ha capito che senza di Lui non può vivere: non è una questione di cammino materiale, con le gambe, è un cammino che deve fare il cuore, la mente, l’affetto. Camminare verso Gesù vuol dire desiderare di incontrarLo, di conoscerLo, di volerGli bene, di seguirLo, di imitarLo. E’ un cammino in salita, un cammino che ti pone davanti tutto ciò che non si vorrebbe mai vedere, un cammino senz’altro impervio per noi che siamo chiusi saldamente nel nostro egoismo e nella nostra diffidenza. Mettersi in cammino vuol dire, quindi, scegliere in maniera inequivocabile la meta, non andare a spasso: la nostra meta è Gesù.
Papa Francesco nella sua recente Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (La gioia del Vangelo) conferma e rilancia quanto con insistenza ha proclamato in questi primi mesi del suo servizio a tutta la Chiesa cattolica in quanto “vescovo di Roma”: andiamo oltre il recinto e inoltriamoci nei pascoli della vita degli uomini e delle donne del nostro tempo; abbandoniamo le nostre sicurezze (“dalle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli”) e inoltriamoci sulle strade degli uomini di oggi, raggiungendoli nelle loro “periferie esistenziali”; poiché Gesù sta alla porta e bussa, ma dal di dentro del nostro cuore, delle nostre famiglie, delle nostre chiese e vuole uscire, insieme a noi, a portare “per le strade del mondo” la gioia del Vangelo, la felicità che sgorga dall’incontro con Gesù che per primo viene per incontrarci e lasciarsi toccare, per sanare, liberare, purificare, renderci pienamente umani; perciò la Chiesa tutta è “in uscita missionaria”, con le porte aperte, capace di parlare al mondo, esperta com’è in umanità.
 
Siamo chiamati a lasciare tutto alla ricerca della fragilità e della miseria di quel Bimbo. Dovremo stare attenti e vigilanti per riconoscere il tempo della Sua visita, in qualsiasi modo essa accada: nella consapevolezza, però, che scegliere il percorso giusto significherà inevitabilmente “sporcarsi le mani”, scorgere la presenza del Dio Bambino nel volto di chi mi sta accanto, di chi soffre, di chi è solo, di chi è povero. Potremo allora scoprire – per noi, per la nostra Diocesi-, cosa concretamente significhi quanto Papa Francesco dice di preferire in Evengelii Gaudiumi al numero 49: “preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze […] Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita”. Perciò: “Usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo”.
Accogliere il fratello come un dono, non come un rivale, non come un pretenzioso che vuole scavalcarmi, un possibile concorrente da tenere sotto controllo perché non mi faccia le scarpe. Accogliere, quindi, il fratello con tutti i suoi bagagli, essere comunità che accetta le diversità dell’altro e le integra in un ambiente di sacra famiglia. Gesù chiede a tutti di superare certo buonismo che trapela nella frase “a Natale si è tutti un po’ più buoni”. E’ bello essere “buoni”, ma come Gesù vuole, cioè con un serio impegno a vivere intensamente i valori e le virtù della misericordia, dell’accoglienza, del rispetto reciproco. Dobbiamo, infatti, convincerci che – di fronte alle moltitudini, carenti di tutto, affamate, indigenti, abbandonate e afflitte dalla solitudine-, sia grave la responsabilità di un cristianesimo fin troppo accomodante e troppo poco coerente. “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il proprio fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3,17).
In questa direzione, Papa Francesco azzarda “ad occhi aperti” il sogno di una Chiesa povera e dei poveri. Vorremmo poterlo seguire in questo sogno, nella speranza di non sognare (noi) “ad occhi chiusi”. E’ per questo che ho inteso accogliere, nell’obbedienza della fede, il monito del Papa ad aprire i “conventi chiusi” ai nostri fratelli immigrati: aprire le nostre strutture alla solidarietà. Fino ad ora è stato possibile fare qualcosa, lavorando soprattutto su “piccole strutture”, messe a disposizione da alcune comunità di suore. Tuttavia, le nostre “grandi strutture” resteranno veramente e concretamente disponibili per fronteggiare la futura emergenza. Apprezzo per altro il gesto di qualche sacerdote che ha manifestato il desiderio di collaborare anche con la propria parrocchia, mentre attendo dai vicari foranei la “mappatura” delle piccole o grandi strutture che potrebbe risultare “preziose” allo scopo della manifestazione della nostra solidarietà e accoglienza. Sono però i nostri cuori chiusi che dovremo aprire e insieme ai cuori anche le nostre case. Il Vescovo deve dare l’esempio per tutti e, perciò, ho chiesto ai miei collaboratori stretti di immaginare la possibilità di ospitare anche nella foresteria dell’episcopio qualche famiglia che si trovi in particolare disagio (fosse anche qualche “famiglia” nostra, specialmente bisognosa).
 
“Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,8)
 
É un cambiamento di rotta radicale, che porta dritto al cuore del Cristianesimo i nomi propri delle persone e non le loro generalità anagrafiche, i volti concreti della gente e non delle immagini, il prossimo “in carne e ossa” con cui confrontarsi e non tante delle astrazioni volontaristiche con cui crogiolarsi.
Non è il Cristianesimo del “a Natale si può dare di più”, del “a Natale bisogna essere più buoni”, della classica buona azione: come aiutare la vecchina sulle strisce pedonali, inviare un sms del valore di due euro a qualche sconosciuta fondazione che, però, si occupa – parola magica – di bambini, o acquistare una stella di Natale per il villaggio dell’Africa dal nome impronunciabile (in fondo, un vero affare: poca cosa, minimo tempo perso, spesa, tutto sommato, limitata!).
E’ il Cristianesimo, invece, di chi non si accontenta di essere buono solo a Natale, ma in ogni istante della propria esistenza diventa compagno, amico, fratello di tutti i poveri del mondo. Perché, come dice san Giovanni della Croce, “alla sera della vita quello che conta è aver amato”. E’ il cristianesimo di chi può affermare: “Sì, io so dov’è mio fratello, lo so perché prego per lui, condivido con lui quello che posso e nelle mie scelte quotidiane lo porto sempre nel cuore”. Andiamo con speranza a Betlemme, andiamo a vedere il mistero stupendamente buono di chi ci ama instancabilmente e ci cerca soprattutto a partire dalla miseria della mangiatoia delle nostre vite, di chi ci attende e cerca tra tanti il nostro volto. Andiamo a vedere che l’unica luce è la sua!
Mettiamoci in cammino dunque – la Verità è cammino, insegna Papa Francesco-, senza paura, recuperando in Gesù la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.
In questo cammino non dimentichiamo la nostra Chiesa sorella di Butembo-Beni. Nei prossimi mesi, mi porterò con una numerosa delegazione in quelle terre martoriate ancora dalla guerra: potremo insieme vivere la gioia di inaugurare il Centro cardiologico “Pino Staglianò” (ormai finito come edificio, mentre le attrezzature acquistate stanno partendo proprio in questi giorni da Pozzallo) e contemplare anche le “meraviglie di carità” che il Signore sta compiendo con la “Scuola di formazione agraria “Nino Baglieri” che avanza con i suoi ambiziosi progetti.
Pregate per la Visita pastorale in corso. La affido a San Corrado Confalonieri, ma anzitutto e soprattutto a Maria di Nazareth: la nostra amata Santa Maria Scala al Paradiso accompagni, preghi e assista con la sua grazia (Colei, che è “piena di grazia”, gratia plena, grembo di tutte le grazie) la nostra comunità diocesana.
Con questa intenzione: perché, in questo Santo Natale, ogni pena sia consolata da una presenza amica; ogni peccato sia perdonato nell’abbraccio della riconciliazione dei fratelli; ogni desolazione intraveda la vocazione alla pace promessa dal Signore; ogni incertezza sia presa per mano e condotta alle decisioni sapienti e desiderate dalla giustizia e dalla dignità umana; ogni distacco si rassereni nella speranza della vita eterna, l’Alba radiosa della nostra vera felicità, somma, immensa, divina e perciò pienamente “umana”.
 
Con grande affetto vi benedico tutti, mentre vi stringo tutti nel mio cuore e vi auguro buon cammino di Avvento e buon Natale, vostro nel Signore
 

Tifone Haiyan: un’emergenza umanitaria. Alle vittime le offerte dell’Avvento di fraternità

 Il Tifone Haiyan che ha colpito lo scorso 8 novembre scorso le Filippine, ha lasciato dietro di sé, secondo fonti Caritas, migliaia di morti, feriti, dispersi, probabilmente con numeri molto superiori alle stime attuali. Il disastro si configura pertanto come “un’emergenza umanitaria di massa”, di altissimo livello per devastazione e complessità, vista l’alta densità della popolazione e la vastità del territorio colpito. Moltissime regioni interne non sono ancora state raggiunte dai soccorritori, cosa che fa pensare e rafforza la probabilità che il numero delle vittime e l’entità dei danni siano destinati a crescere. Un primo intervento di emergenza pari a 4,5 milioni di euro prevede di portare aiuti a 55.000 famiglie in 9 diocesi. Sono già stati distribuiti 68.310 pacchi di alimenti a 345.000 persone in 13 diocesi.
 
“Le preghiere, la solidarietà e la mobilitazione della Caritas con il sostegno di tanti fratelli e sorelle in tutto il mondo ci è di grande conforto e ci consente di sperare e di impegnarci per la ripresa e la ricostruzione” – ha detto Mons. Broderick Pabillo, vescovo ausiliare di Manila e presidente di Caritas Filippine. In particolare, accogliendo l’appello del Papa ad essere “generosi nella preghiera e con l’aiuto concreto”, Caritas Italiana si è subito affiancata alla Caritas locale per sostenerne i primi interventi. Caritas Filippine insieme ai Centri diocesani di azione sociale e grazie al sostegno della rete internazionale continua nelle azioni di aiuto in tutte le 11 diocesi.
 
La distribuzione degli aiuti richiede uno sforzo logistico imponente con l’uso di aerei ed elicotteri, ma può contare anche sulla mobilitazione di migliaia di volontari e sulla rete delle parrocchie. Prosegue anche lo sforzo per raggiungere le aree non ancora monitorate e si sta sempre più articolando un piano organico di intervento su base nazionale dell’intera rete Caritas. La sede Caritas a Manila è diventato un centro operativo dove 250 volontari sono al lavoro per confezionare pacchi con generi alimentari (soprattutto riso e farina) che vengono poi distribuiti alle famiglie di Leyte.
 
In collaborazione con il CRS della rete Caritas sono già stati distribuiti aiuti, in particolare tende, a 18.000 famiglie sfollate nella zona di Cebu City ed è stato messo a punto un piano di interventi in favore di 100.000 famiglie, 500.000 persone, che prevede alloggi, di emergenza e permanenti, distribuzione di acqua, prodotti per l’igiene, attrezzature per la cucina e generi non alimentari di prima necessità.
 
Alle vittime del tifone è destinata anche nella nostra Diocesi di Noto la colletta dell’Avvento e del Natale di fraternità 2013.
 
Le offerte siano prontamente consegnate a Mons. Guccione o inviate tramite conto corrente postale n. 10030963 intestato alla Caritas diocesana di Noto specificando nella causale “Avvento di fraternità 2013”.

Il nuovo libro del nostro Vescovo su l’abate calabrese. Fede cattolica nella Trinità e pensiero teologico della storia in G. Da Fiore

S.E. Mons A. Staglianò ha pubblicato per l’Editrice Vaticana un nuovo libro che costituisce il nono volume della collana “Itineraria” curata dalla Pontificia Accademia Teologica, prende in esame il pensiero di Gioacchino Da Fiore, abate calabrese, nonché uno dei più autorevoli filosofi del Medioevo. In particolare l’intento del volume è di suggerire un’interpretazione che avvalori gli insegnamenti di Gioacchino, apportando maggiore chiarezza nella sua dottrina trinitaria e cristologia per propiziarne la piena riabilitazione ecclesiale. Il lavoro dunque risulta essere un ulteriore impulso per gli studiosi di teologia e gli studenti delle facoltà teologiche, per la conoscenza e l’approfondimento di una figura che ancora oggi resta affascinante ed attuale.
 
PREFAZIONE del Card. GIANFRANCO RAVASI
 
Per giustificare onestamente e correttamente questa prefazione, scritta da un “inesperto” che non è in grado di perlustrare il piccolo mare testuale degli scritti autentici e apocrifi gioachimiti e il vasto oceano delle bibliografie esegetiche, vorrei ricorrere a un’immagine che mi è più familiare. Nella straordinaria catacomba romana di via Dino Compagni, suggestiva testimonianza di un’ermeneutica cristiana dei simboli e dei motivi iconografici classici pagani, si hanno due curiosi affreschi di “scene d’ingresso”. In quelle raffigurazioni le duplici ante dei portali vengono spalancate da un personaggio, e al di là di esse si intravede un mirabile idillio fatto di una vegetazione bucolica, evocazione di quel paradiso che attende il giusto là sepolto (non si dimentichi che “paradiso” è un termine di matrice alto-iranica che originariamente designava un giardino recintato).
Questa illustrazione, che forse si avvale della metafora della Thyra písteos, la “porta della fede” – presente negli Atti degli Apostoli (14,27) e ripresa per l’Anno della fede del 2013 da Benedetto XVI – è ora da me usata allegoricamente come segno della mia funzione in questa prefazione. Starò, infatti, sulla soglia aprendo un orizzonte di ricerca sbocciato, cresciuto e fiorito in anni di studio condotti da mons. Antonio Staglianò. Dal 2009 egli è vescovo di Noto in Sicilia, ma la sua origine calabrese è legata alle terre che videro la nascita, la vocazione, la vicenda umana e spirituale del protagonista di quell’orizzonte, Gioacchino da Fiore, una delle figure più emozionanti, coinvolgenti e per molti versi sconcertanti del Medioevo.
Intenzionalmente ho usato l’aggettivo forte “sconcertante” per questo personaggio, perché l’impegno principale che mons. Staglianò si è assunto non è solo quello di smentirlo, ma persino di capovolgerlo nel suo contrario, presentandoci un Gioacchino rassicurante nell’ortodossia della sua fede. Si vorrebbe, dunque, dissolvere la nebula delle decifrazioni sospette del pensiero esegetico e teologico dell’Abate calabrese, abbattere certi stereotipi che lo accompagnano da secoli, spezzare o almeno dipanare «il groviglio delle interpretazioni… che hanno compromesso l’utilizzazione sistematica della sua riflessione, delle prospettive fondamentali della sua dottrina, della sua ermeneutica della Scrittura, della sua versione utopica della storia».
Anzi, il proposito del vescovo di Noto è quello di avvolgere di nuovo in modo ufficiale il volto di Gioacchino nell’aureola della santità che, a livello popolare, gli fu sempre assegnata, confermando quel culto che spontaneamente gli fu tributato. Da un lato, infatti, mons. Staglianò, nato a Isola Capo Rizzuto, a lungo vissuto in quelle terre calabresi, è uno dei pochi che senza difficoltà riuscirebbe a raggiungere quel Celico cosentino ove l’Abate vide la luce oppure quel S. Martino a Canale ove spirò e S. Giovanni in Fiore che gli dette il patronimico spirituale e ne accolse, prima, l’esperienza monastica e, poi, le spoglie. D’altro lato, però, egli è anche uno dei pochi che possono entrare nella complessità fluida del pensiero gioachimita per sceverarne l’autenticità rispetto alle sovrastrutture e alle superfetazioni apocrife, ed è anche uno dei rari studiosi capaci di districarsi all’interno di una Wirkungsgeschichte lussureggiante e spesso creativa.
Non per nulla mons. Staglianò non esita ad affrontare con grande acribia e a sciogliere quei nodi che, anche a chi è come me solo sulla soglia di quell’orizzonte variegato, sono spontaneamente associati alla figura del grande calabrese, dall’intreccio fra Trinità e storia, al sospetto “triteismo” teologico da cui discenderebbe il celebre “triteismo” storico della triplice èra. Solo chi ha ben stretto il filo di Arianna del pensiero e degli scritti di questo mistico, teologo, esegeta, profeta, fondatore e riformatore religioso riesce, infatti, a percorrere quella sorta di “giardino paradisiaco” spirituale da lui piantato, del quale appunto noi ora dischiudiamo le porte. Tale e tanta è la passione che anima il vescovo Staglianò per l’Abate, che a lui ha persino dedicato il suo stemma episcopale, facendolo diventare una vera e propria insegna simbolica gioachimita. Anzi, in finale la sua analisi critica trascolora in poesia, creando un epilogo che è anche una specie di ideale testamento-appello a «tornare ai suoi tre cerchi», ritrovando «le radici nei suoi colori», proiettandosi «nel rosso del futuro che già inizia».
A chiudere le porte di questo panorama letterario e spirituale sarà, invece, un teologo “esperto” e competente come è Piero Coda: sarà lui – dopo aver percorso l’itinerario gioachimita proposto da mons. Staglianò – a porre un suggello che sia quasi il bilancio di una vera avventura dell’anima e della mente. È, quindi, a lui che lascio il compito più alto e delicato, quello di elaborare la postfazione che riassume, sulla scia dell’esegesi dell’autore del saggio, una dottrina trinitaria e una visione storico-salvifica, sospesa tra metafora e riflessione, tra fosforescenza simbolica e lucida speculazione. Davanti a me rimangono sullo sfondo abbracciate tra loro la figura del Maestro e quella del discepolo. Sì, perché Antonio Staglianò – che pure ricordo sempre come mio alunno di forte tempra intellettuale e di originale capacità ermeneutica – è soprattutto appassionato discepolo di due Maestri da lui tanto amati, Gioacchino da Fiore e Antonio Rosmini, due outsider forse della teologia, ma di intensa fedeltà e ortodossia personale.
Tuttavia, alla fine è il Maestro Gioacchino a rimanere negli occhi e nella mente del lettore, certamente per il nuovo ritratto teologico disegnato in queste pagine. Anche per me le antiche letture di testi ramificati e ardui come l’Expositio o l’Enchiridion in Apocalypsim o come quel suo singolare e geniale Psalterium decem chordarum o ancora quella Concordia che incrociava le Scritture del Primo e del Nuovo Testamento, acquistano ora un diverso sapore. Ma per tutti egli rimarrà sempre vivo nella memoria soprattutto attraverso la citatissima e solenne celebrazione che il san Bonaventura dantesco gli aveva dedicato contemplandolo nel cielo del sole paradisiaco: «…lucemi da lato / il calavrese abate Giovacchino, / di spirito profetico dotato» (Paradiso XII, 139-141).
 
 
 
 
 

CAMPAGNA CIBO PER TUTTI ENTRO IL 2025. Anche a Modica, anche nella diocesi di Noto

 Inizia martedì 10 dicembre in tutto il mondo la campagna “cibo per tutti entro il 2025”, fortemente sostenuta da papa Francesco. La Caritas di Noto aderisce partendo da un’iniziativa lanciata a Modica l’anno scorso: la decima della fraternità, ovvero la scelta di iniziare con il devolvere il 10% delle spese non necessarie, per avviare quindi una riflessione sugli stili di vita. Se si fa una gita, una festa, dare una parte di quanto si spende permette di avviare un rapporto con i poveri “assoluti” che mancano delle cose essenziali per vivere. Conoscerli e incontrarli dà quindi pienezza al gesto, e questo diventa possibile a partire dai tanti piccoli gemeallaggi tra famiglie e scuole avviate con la diocesi di Butembo-Beni in Africa e approfonditi in incontri con parrocchie e scuole animate da Gianni Novello, di Pax Christi, che in questi mesi si trova in Congo per intensificare i rapporti, soprattutto cogliendo quando di bello e di esemplare l’Africa può offrici, con una terza componente: le forme di auto aiuto. E così questi tre passi – un gesto di condivisione frutto di una limitazione nei nostri eccessi, una maggiore conoscenza, l’apprendere una solidarietà tra poveri come cifra della vera solidarietà – possono rendere la camapgna “un cibo per tutti” un cammino di umanizzazione contro la globalizzazione dell’indifferenza. Evitando che “le notizie delle quotazioni in borsa abbiano pìù peso – come denuncia papa Francesco – di un bambino che muore di fame o di un vecchio che resta abbandonato”. Le notizie sulla borsa peraltro sono attorno all’idolo denaro, quelle su bambini e vecchi invece sul nostro essere veramente umani e possono diventare – se il cuore è sensibil e la mente sveglia – appello a un agire personale e comunitario per accrescere bene comune e umanità. La Caritas diocesana di Noto invita per questo quanti fossero disponibili alla campagna e ad azioni di solidarietà con il mondo a comunicarlo (si può usare l’indirizzo di posta elettronica: caritas@diocesinoto.it). Un momento importante, come di consueto, sarà quindi il 1 gennaio la veglia per la pace che quest’anno avrà come tema voluto dal papa “La pace nasce dalla fraternità”.

ASSOCIAZIONE METER: DON DI NOTO, “GRATITUDINE” PER IL MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO

Commozione e gratitudine a “Casa Meter” per la benedizione papale giunta ieri, domenica 8 dicembre, in occasione dell’inaugurazione avvenuta ad Avola (Salerno) della sede: ne parla il comunicato stampa della associazione guidata da don Fortunato Di Noto (www.associazionemeter.org), dove si riportano le parole del messaggio pervenuto da parte della Segreteria di stato vaticana. Nel testo, consegnato da parte del vescovo di Noto mons. Antonio Staglianò, il Papa “rivolge il suo cordiale saluto, esprimendo compiacimento per la provvida istituzione ed esortando a proseguire sulla strada del generoso impegno a servizio dei più piccoli, sempre animati da sentimenti di genuina carità e di amore al prossimo”. Il Papa, inoltre, nell‘impartire la sua Benedizione Apostolica, chiede “di pregare per lui”. Il fondatore e presidente dell’associazione, don Di Noto ha commentato così: “Siamo grati e commossi davanti alle parole del Papa”, ringraziando “il vescovo mons. Staglianò che si è fatto latore del telegramma, il Segretario Parolin e ovviamente Papa Francesco. Torniamo a chiedergli di venire a toccare con mano la nostra realtà, rinnovando il nostro servizio per i bambini, la società e la Chiesa cattolica di cui siamo tutti figli. Grazie, Papa Francesco!”. 

Il Servizio di Pastorale Giovanile e Vocazionale Diocesano ha realizzato un sussidio per la formazione dei giovani. Arriverà a tutte le Parrocchie

 
Con una lettera del servizio di pastorale giovanile vocazionale diocesano, verrà comunicato e presentato a tutta la Diocesi di Noto l’itinerario formativo che è stato ideato e pensato per tutti i gruppi di giovani e adolescenti delle parrocchie, associazioni e movimenti che sono presenti nel territorio della diocesi di Noto.
Dopo aver raccolto le varie istanze da parte dei singoli vicariati che chiedevano un aiuto in tal senso, è venuta fuori questa proposta, che suggeriamo, come uno strumento utile nel cammino di accompagnamento dei nostri giovani e adolescenti.
 
Questo itinerario è frutto di un lavoro attento e scrupoloso dell’equipe di Pastorale giovanile vocazionale che ha preso forma e concretezza in un opuscolo di 55 pagine, all’interno delle quali troverete tutta la passione e la gioia che l’equipe diocesana ha sperimentato nel prepararlo.
E… nel consegnarlo ad ognuno di voi, vogliamo – affermano i responsabili diocesani –  trasmettervi questa gioia e questa passione, perché siamo certi che è la stessa che provate, quando siete accanto ai giovani.
 
Troverete in copertina raffigurata l’immagine di una casa, che è l’idea di fondo che è stata scelta come tema : “ UN’ALTRA CASA “ e che ci accompagnerà lungo il cammino di questo anno pastorale.
 
Dopo una breve presentazione del tema individuerete tre tappe che corrispondono a tre icone bibliche:
1) la casa dell’annunciazione ( Lc. 1, 26 – 38 ): “ Ti scelgo e ti chiamo”.
2) la casa di Zaccheo ( Lc. 19, 1 – 9 ): “ Ti cerco e ti incontro “.
3) la casa di Emmaus ( Lc. 24, 13 – 35 ): “ Ti riempio e ti mando”.
 
Ogni tappa è scandita:
– da un approfondimento biblico – teologico: brano del vangelo, commenti teologici;
– da un approfondimento culturale: brani tratti da testi di vari autori, analisi del testo di canzoni di musica leggera, commenti iconografici, schede di films.
– da un approfondimento spirituale: proposte di adorazione eucaristica, di un rosario meditato, di una celebrazione penitenziale e di una via lucis.
 
Ogni tappa è accompagnata da un testimone, che con la sua vita incarna le tre icone.
 
All’interno del testo troverete una scheda riassuntiva che servirà come bussola per muoversi all’interno del sussidio.
 
Nel consegnarvi questo strumento di lavoro, vi ricordiamo gli appuntamenti di questo anno pastorale 2013 – 2014:
 
– sabato 30 novembre 2013 Veglia di Avvento.
– Domenica 19 gennaio 2014 giornata dei cresimandi.
– Domenica 23 febbraio 2014 giornata dei ministranti.
– Settimana vocazionale 28 aprile – 3 maggio 2014.
– VII giornata dei giovani sabato 10 maggio 2014.