In vista del prossimo V Convegno Ecclesiale di Firenze, il nostro Vescovo, Mons. Antonio Staglianò, delegato regionale al Comitato preparatorio del Convegno, è stato intervistato da “Radio Spazio Noi in Blu” di Palermo, su “In Cristo il nuovo umanesimo. La via della Sicilia per convenire a Firenze 2015 – la creazione dell’umano”. Qui di seguito l’intervista rilasciata dal Vescovo.
Quest’oggi l’argomento che abbiamo scelto per parlarne con Mons. Staglianò è l’accoglienza e l’immigrazione, nello specifico i diritti umani e la dignità dell’uomo.
Intrattenendoci sul nuovo umanesimo o meglio sull’umanesimo nuovo in Cristo, occorre riflettere un po’ sulle forme storico-pratiche in cui questa umanità nuova si configura; diversamente ragioniamo dentro l’astrattismo filosofico o culturale, che può essere interessante, ma non raggiungiamo il nucleo incandescente della nostra riflessione.
Questa questione dell’immigrazione e dell’accoglienza è una sfida culturale che caratterizza quella che abbiamo definito la “via siciliana” di un umanesimo nuovo in Cristo.
Quali sono le risposte concrete che questo nuovo modo di vivere, può offrire come testimonianza di vita? Partiamo dall’accoglienza di questi immigrati, che vanno rispettati nelal loro dignità, in quanto esseri umani, persone! Oggi, anche nel dibattito culturale, diverse frange della politica italiana avanzano considerazioni di tipo sociologico e politico e talvolta anche religioso, secondo le quali si dovrebbe piuttosto respingere queste persone, anziché accoglierle.
Forse bisogna uscire da un pregiudizio diffuso, che è un pregiudizio politico, sociale e anche di “mercato” se vogliamo.
Sicuramente, perché mentre l’approccio politico su questo tema deve fare il suo percorso, è giusto dire che gli immigrati che arrivano sulle nostre coste sono un problema nazionale e non soltanto siciliano, europeo e non solo italiano. D’altra parte, c’è un problema più immediato, quello appunto dell’accoglienza degli immigrati, al di là delle considerazioni di carattere storico e politico sul perché arrivino da noi, su chi li manda e sui grandi rischi del terrorismo internazionale. Allora il cristiano che vive l’umanesimo nuovo in Cristo, deve agire alla luce del Vangelo, secondo l’ammonimento e il comandamento di Gesù, anche quando, nello scontro doloroso che si sta consumando tra cristianesimo e islam, i fratelli da accogliere fossero nostri nemici o uccisori.
Qui c’è un novum dell’umano, a cui Gesù ci spinge, come dicendoci: “Io metto nel mondo un sentimento di umanità nuova, per il quale se il tuo nemico si presenta davanti a te, tu non lo respingi, ma lo accogli”. Ecco l’umanità nuova, che Cristo ha generato donando la sua vita per amore, per crearsi un popolo tutto “sacerdotale”, un popolo pienamente umano, che sa manifestare l’umanità bella e buona di Gesù e del suo Vangelo.
Lei ha fatto giustamente riferimento allo scontro di religione. Ma qui c’è di mezzo l’uomo. Allora è necessario porsi in ascolto dell’altro, cominciare a pensare che dietro a ogni persona che arriva sulle nostre coste c’è una storia, una croce, un dolore.
Certamente, e questo ci spinge ad un sentimento di pietas e di compassione che non è un sentimento moralistico o un’emozione soltanto, ma la stessa pietas di Cristo che guarda a noi sconfitti, feriti dal male, afflitti da tante prove e si commuove, piange con noi e per noi.
L’umanità nuova oggi, concretamente, dentro questa crisi che siamo attraversando, assume le forme concrete della condivisione e della solidarietà: per esempio le famiglie cristiane potrebbero adottare figli che non hanno papà e mamma, ma anche famiglie intere, proprio per condividere. Urge una nuova “moltiplicazione dei pani e dei pesci”, il miracolo della condivisone solidale, che ci impegna ad amarci gli uni gli altri come lui ha amato noi, mettendo a disposizione il poco che abbiamo. Da qui può nascere una rivoluzione straordinaria, una conversone del cuore, che sa amare e vedere il fratello che mi sta accanto.
C’è una via, un’identità anche “regionale”, che ci porta verso Firenze 2015?
Sicuramente c’è una via tutta siciliana, dentro un’area territoriale che è anche culturale, per dare testimonianza alla fede cristiana in un territorio, con una sua specificità e una propria identità. Bisogna dunque cogliere concretamente i tratti tipici della “sicilianità”dell’umanesimo contemporaneo.
Quali sono questi tratti tipici dell’umanesimo siciliano?
Direi che possiamo riferirci all’esperienza e al vissuto della Sicilia dei tempi passati, che valgono anche per il presente. Penso per esempio a ciò che Pirandello sosteneva, tentando di caratterizzare il genio siciliano quando affermava: “fru fru fru come un tarlo scava nel profondo”. il siciliano possiede la via del logos che è via di contemplazione e di bellezza, nella quale cogliamo quell’umanesimo nuovo a cui sempre aspiriamo.
La via della bellezza in Sicilia esiste nella grande tradizione storica, artistica, monumentale e letteraria e sta a indicare che il “tipo” siciliano è quello che pensa, dove il pensiero non è semplicemente concetto o elaborazione di chiacchiera, ma attitudine ad andare dentro, nel profondo delle cose.
Sua Eccellenza, c’è una crisi nella “contemplazione”, così come lei la sta definendo. C’è ancora questa attitudine alla bellezza come contemplazione o bisogna riconquistare questa attitudine?
Il vissuto della Sicilia è piagato e pieno di rotture, per cui la crisi a cui lei accennava è reale e richiede l’impegno della Chiesa, delle parrocchie, per dare maggiore corpo al cristianesimo. Quando parlo della via del logos intendo dire anche una dimensione che ha a che fare con i legami, gli affetti. Allora si tratta di recuperare questo “legame affettuoso” che c’è dentro la relazionalità, dentro la vita degli uomini ed è questa la bellezza vera e difficile del cristianesimo, la bellezza del crocifisso. Bisogna recuperare una relazionalità più incarnata, una inculturazione della fede, a partire proprio dalla tipicità della via siciliana, con tutta l’esperienza grande della religiosità popolare, da recuperare quale capacità di un popolo di darsi un linguaggio religioso e credente, di offrirci un linguaggio più “credente” che “religioso”; per cui tutte le feste religiose, tutte le forme di pietà popolare, vanno nella direzione “eucaristica”, quella indicata da Gesù, che spinge il dono della sua vita fino a morire per l’altro: lì si incontra effettivamente l’umano.
Non crede che questo “umano” nell’uomo, debba prima di ogni cosa, ritornare ad autocomprendersi, ad autocontemplarsi, ritornando ad una profonda e matura riflessione interiore?
Quello che lei dice, con il linguaggio cristiano si chiama conversione, che è un ritorno a se stessi, scoprendo la realtà più profonda di sé e la relazione con gli altri. Perché “persona” diversamente da “individuo” è relazione, trama di relazioni. Qui si genera la mia comunione dentro la logica dell’amore. Gesù con questo comandamento nuovo dell’amore, umanizza la nostra esistenza, quando ci dice che il potere è servizio, dono di sé all’altro, autotrascendimento di sé verso l’altro e non sfruttamento. Quando ci dice “amate i vostri nemici” e di non fare violenza in nome di Dio. Solo nell’esperienza cristiana veniamo a sapere che Dio è amore ed è capace di convertirci alla verità di noi stessi.
Quanto in tutto questo, Eccellenza, ha spazio e deve trovare spazio l’umiltà?
L’umiltà è una condizione dell’essere umano: umiltà vuol dire riconoscere quello che si è e metterlo a disposizione degli altri; non è tanto dire: “No, non ce la faccio, sono nulla!”.
C’è una massima di perfezione cristiana di Antonio Rosmini che dice: “Riconoscere intimamente il proprio nulla”; questa espressione può sembrare una via di riconoscimento del niente che c’è in noi, mentre nella tradizione cristiana riconoscere intimamente il proprio nulla, significa in fondo gettar via tutta la propria zavorra, distruggere in sé quell’orgoglio, quella presunzione, quel credersi qualcuno, quell’autocentramento in sé, quel narcisismo che nella “società dell’ipermercato” influenza e condiziona tutti. A cosa ci porta l’umiltà? Al punto da cui Dio ha creato tutto, perché noi siamo creati dal nulla. Quel nulla lì è alla base della nostra umiltà; noi dobbiamo essere umili, dimagrire nell’io obeso che cresce a dismisura, fino a raggiungere il proprio nulla, quel punto da cui Dio è partito per creare il mondo.